Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 20/5/2014, 20 maggio 2014
LIBIA ALLA RESA DEI CONTI, MAI PIÙ «TERRA PROMESSA»
Ora è una terra falcidiata da una guerra civile, dall’esito ancora assai incerto, che mette a rischio anche la presenza delle imprese estere (molte italiane). È anche la principale area di raduno e di partenza da ogni parte dell’Africa per migliaia di migranti stipati, per mano di bande armate di trafficanti, nei barconi in rotta verso le coste siciliane. La Libia, però, è stata per l’Italia, da cent’anni a questa parte, una sorta di "Terra promessa". Dopo che l’avevamo sottratta nel 1912 al dominio dell’Impero turco, pensavamo che avrebbe potuto ospitare nelle zone costiere una schiera di tanti nostri braccianti, da trasformare in coltivatori proprietari di un campicello riscattandoli così dall’indigenza. Successivamente, dopo la repressione negli anni Venti delle ultime resistenze delle comunità senussite all’interno, il Duce aveva fatto appello, impugnando a Tripoli la "spada dell’Islam", ad alcuni notabili arabi per un fronte politico comune contro le vecchie potenze coloniali francese e inglese. E se, dopo la seconda guerra mondiale (durante la quale Mussolini aveva confidato che Bengasi sarebbe stato un ottimo avamposto per muovere alla conquista dell’Egitto), parecchi nostri contadini ed esercenti avevano dovuto far fagotto dalla Libia, quel lembo d’Africa sull’altra sponda del Mediterraneo era tornato a suscitare l’interesse dell’Italia. Lo "scatolone di sabbia" del deserto libico stava rivelando infatti ciò che alcuni nostri geologi avevano intuito nelle loro esplorazioni condotte verso la fine degli anni Trenta: ossia, l’esistenza di vasti giacimenti petroliferi. Ma l’Agip non riuscì a insediarsi in Libia, in quanto un accordo stipulato nel dicembre 1957 da Enrico Mattei col governo di Tripoli venne subito bloccato da re Idris su pressione dei diplomatici americani, e nella stessa sorte incappò l’anno dopo il suo tentativo, tramite una consociata creata in Svizzera, di rientrare nel gioco in competizione con le "Sette Sorelle". Solo nel 1967, due anni prima dell’avvento al potere di Gheddafi, l’Eni mise piede infine in Libia per scoprire poi nel 1973 un importante giacimento di greggio a Bu Attifel. A sua volta, la Fiat trovò nel 1976 nei finanzieri del Colonnello, grazie a un accordo pilotato da Cuccia e dalla banca Lazard, i capitali necessari per una boccata d’ossigeno nel mezzo della grave crisi in cui versava: così che l’Avvocato ebbe per una decina d’anni Gheddafi quale suo principale socio. Fu quanto non piacque affatto agli Stati Uniti; ma solo nell’agosto 1986, quando il Gruppo torinese tornò in buona salute, poté sganciarsi da una parentela economica divenuta sempre più ingombrante (non solo per il boicottaggio americano di alcune consociate di Corso Marconi), anche perché Gheddafi era stato accusato da Reagan di essere il mandante, quale patrono della fazioni estremiste palestinesi, di una serie di sanguinosi attentati. Successivamente, in seguito al progressivo ammorbidimento delle radicali posizioni anti-occidentali del dittatore di Tripoli, la Libia era tornata nel giro dei grandi affari internazionali legati all’export del petrolio. Anche l’Eni aveva perciò esteso le sue attività attraverso particolari accordi di cooperazione con l’ente energetico statale, analoghi a quelli stipulati dal "Cane a sei zampe" in altri Paesi africani. Lo stesso avevano fatto alcune grosse imprese italiane nel campo delle opere pubbliche. Ma adesso questa specie di cordone ombelicale che lega l’Italia alla sua ex colonia, per via soprattutto dell’importazione di massicci quantitativi di petrolio e di gas, rischia di spezzarsi per mano delle diverse milizie tribali in lotta fra loro, dopo la caduta di Gheddafi, che bloccano la produzione e l’esportazione di due risorse essenziali per la copertura del nostro fabbisogno energetico, già ridottesi di molto nel frattempo. Eppure l’Unione europea continua a stare alla finestra, tanto sul fronte dell’immigrazione clandestina che su quello politico, per non parlare di quello energetico. E ciò malgrado i gravi problemi, non solo per l’Italia, derivanti sia dagli sbarchi in massa di migranti alla porta Sud dell’Europa sia dall’assottigliamento delle forniture di gas e di greggio dalla Libia e, adesso, anche dalla Russia in seguito alla crisi ucraina.
Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 20/5/2014