Farian Sabahi, IoDonna 17/5/2014, 17 maggio 2014
OLTRE IL VELO DELL’IGNORANZA
IN QUESTI SCATTI l’iraniano Ebrahim Noroozi declina artisticamente il velo in modi diversi (le sue connazionali non vanno in giro vestite così), criticando l’ossessione occidentale per il velo e prendendo le distanze da altri suoi reportage che mettono in primo piano le donne sfigurate dall’acido. Nel mondo musulmano quelle immagini fanno tendenza, come la serie Vogue arabe dell’artista marocchino Hassan Hajjaj, che vive a Londra ed è tornato nel paese d’origine chiedendo alle amiche di mettersi in posa, con i marchi griffati bene in vista.
NEGLI ULTIMI DECENNI il velo è stato un segnale dell’avanzare dell’Islam politico nelle società del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma per secoli è stato espressione di devozione religiosa e fenomeno identitario. Non solo per le musulmane, ma anche per tante donne dell’Est Europa. E lo è ancora oggi, in terra d’immigrazione: Valentin ha nove anni e gioca a pallone con mio figlio che un giorno ha chiesto «Mamma, sono musulmani?». Il fraintendimento è dovuto al velo della nonna di Valentin: viene dalla Romania e il fazzoletto nero in testa è un’abitudine. Il velo è espressione di devozione anche per quelle donne che non sono nate nell’Islam ma lo hanno scelto. Ne ho conosciute alcune, ai mercati generali lavorano gomito a gomito con marocchini ed egiziani. Con la testa coperta incuriosiscono i giovani immigrati. Tessono relazioni sancite da matrimoni religiosi celebrati da imam che trasformano i garage in moschee. Quando l’amore finisce divorziano rispettando, prima di iniziare una nuova avventura, i quattro mesi e dieci della ’Idda in modo da essere certi, in caso di gravidanza, chi sia il padre.
In piazza Madama Cristina, a Torino, osservo Halima. Lei sì che è musulmana. Marocchina, marito egiziano, i due figli giocano all’oratorio. Il capo a volte coperto dal foulard, talaltra da uno strano cappello che raccoglie i lunghi capelli. Mise diverse, a seconda della stagione. Perché il Corano invita le donne a «coprire le parti belle» ma non dà indicazioni precise sulla forma e sul tessuto del velo. Un invito soggetto a interpretazione, usi e costumi locali, tant’è che i Talebani imposero il burqa alle afgane, mentre nei paesi arabo-sunniti del Golfo è raccomandato il niqab che lascia scoperti solo gli occhi.
In Iran il velo è stato oggetto di diversi provvedimenti di legge: vietato negli anni ’30 per dare al mondo un’immagine moderna, obbligatorio dalla Rivoluzione del 1979. Troppe imposizioni, tant’è che è raro incontrare un’iraniana della diaspora col foulard in testa. Fanno eccezione le mogli dei diplomatici e, alla fine degli anni ’90, la mia vicina di stanza nel dormitorio studentesco di Londra, Zahra. Sulla quarantina, studiava grazie a una borsa di studio degli ayatollah. Marito e figli erano in Iran, a sostituirla nei lavori domestici c’era la cugina. E per soddisfare il desiderio di Sohrab, gli aveva scelto una moglie temporanea che lui aveva accettato di buon grado. Famiglie devote, diverse dalla borghesia cui ero abituata. Facevo ricerca per il dottorato e, su consiglio di Zahra, andai a trovare un suo professore a Teheran. Era maggio inoltrato, nel primo pomeriggio il caldo era soffocante. In casa del docente, due donne: una con il velo, l’altra senza. Pensai: «Una è religiosa, l’altra no». Sfilai spolverino e foulard, restando in jeans e maglietta.
LE SIGNORE SORRISERO, il professore si irrigidì e non mi rivolse più la parola. Di lì a poco capii che la giovane con il foulard era una studentessa e la cinquantenne senza velo la moglie, che in casa propria con il marito non era tenuta a coprirsi.
Fuori dall’Iran nemmeno le figlie e le nipoti di ayatollah hanno l’abitudine di mettere il velo: piega perfetta, minigonna e stivali nella vita quotidiana, chador nero d’ordinanza quando padri e nonni vengono in visita ufficiale. Ipocrisia? Gli iraniani la chiamano dissimulazione. In patria declinano il velo in modo diverso, lasciando sempre scoperto il viso: il chador (nero, oppure a fiorellini come gli sfondi di queste fotografie), il maghnaeh (cucito come quello delle suore, per non far scappare ciuffi ribelli, comodo a scuola e in ufficio), e il morbido rusarì.
In qualche angolo di mondo i politici costringono le donne a mettere il velo, altrove provano a vietarlo (Turchia, Francia). Trascurando che i problemi veri, quelli per cui tante femministe lottano, sono altri: il diritto al divorzio e alla custodia dei figli, la testimonianza in tribunale (quella di una donna vale la metà), il risarcimento in caso di ferimento (è del 50%, tant’è che l’iraniana Ameneh Bahrami ha ottenuto dal giudice di poter accecare da un solo occhio il pretendente che l’aveva sfigurata con l’acido) e l’eredità che varia a seconda dei Paesi ma è comunque inferiore rispetto a quanto garantito a un maschio.
IL MONDO MUSULMANO VA AVANTI, ma non sempre le riforme sono efficaci, pensiamo a quella del diritto di famiglia promulgata in Marocco nel 2004: la condizione femminile è migliorata, ma non è stata risolta la spinosa questione dell’eredità che, nel caso vi sia un parente di sesso maschile, priva mogli e figlie della casa. Di fronte a questioni simili, il velo non sembra importante. Tante si velano con convinzione? Tante altre non coprono i capelli? È un dato di fatto. Sulla loro identità ci sarebbe molto altro da dire, perché le loro esistenze sono complesse ma rese banali dallo stereotipo delle musulmane velate e quindi oppresse. Uno stereotipo infranto da questi scatti provocatori perché distanti dalla realtà.