Matteo Fagotto, IoDonna 17/5/2014, 17 maggio 2014
TRA GLI SCHIAVI DELLO STAGNO
Bruciati dal sole tropicale, decine di uomini vestiti alla buona si raggruppano come tutti i giorni attorno al porticciolo, portando con sé una tanica di benzina e un frugale pranzo. Sono le otto di mattina a Rebo, un piccolo villaggio di pescatori sulla costa orientale dell’isola di Bangka. Gli uomini in attesa fissano silenziosi l’orizzonte: una piccola barca li porterà su una serie di pontili di legno a poche centinaia di metri dalla riva. Laggiù, qualcosa di molto prezioso li attende sul fondo del mare, qualcosa per cui questi uomini sono pronti a morire. Poco più grande di Cipro e abitata da un milione di persone, l’isola indonesiana di Bangka fornisce il 30 per cento della produzione mondiale di stagno, un metallo impiegato per saldare i componenti di smartphone e tablet. Per far fronte alla crescente domanda di prodotti elettronici, Bangka si è trasformata in un’immensa miniera a cielo aperto, le sue foreste tropicali ormai sfregiate da migliaia di crateri contaminati da acque acide e metalli pesanti. Secondo il governo provinciale di Bangka, dal 30 al 40 per cento della popolazione è occupata nell’estrazione dello stagno, per la maggior parte gente comune che opera in miniere illegali, dove gli incidenti mortali e le lesioni permanenti sono all’ordine del giorno. Secondo l’associazione ambientalista Walhi, a Bangka muore almeno un minatore a settimana. Dopo aver raggiunto le piattaforme, gli uomini si mettono al lavoro, tuffandosi in una pozza di acqua torbida e fangosa, in netto contrasto con il colore turchese del mare circostante. Ogni mezz’ora emergono per una pausa di dieci minuti, prima di reimmergersi a otto metri di profondità. I divers, o tuffatori, succhiano lo stagno grezzo dal fondale tramite un tubo di plastica collegato a una pompa diesel, mentre un altro tubo collegato allo stesso motore permette loro di respirare.
UNA VOLTA POMPATO sui pontili, lo stagno si deposita sul fondo di piattaforme di legno, mentre la sabbia viene rigettata in mare. Ogni pontile può raccogliere 15 chili di stagno grezzo al giorno per un valore di circa 100 dollari, garantendo a ogni minatore un guadagno di 15 dollari, il doppio della paga di un bracciante agricolo. Ma questa manna ha un prezzo alto. «I divers sono quelli che rischiano di più» grida il 31enne Huwei Liong, tentando di farsi sentire tra il rumore assordante delle pompe. Le buche sottomarine create dall’estrazione sono profonde e possono crollare con estrema facilità, seppellendo i divers sotto metri di sabbia. Prima di diventare il proprietario di un pontile, Liong è sopravvissuto a numerose frane. «Vieni sepolto improvvisamente, non c’è modo di prevederlo» ricorda. «Puoi rimanere sott’acqua mezz’ora prima che riescano a tirarti su». Nel mare di Bangka, centinaia di pontili illegali operano a fianco di 52 navi draganti appartenenti a compagnie regolari, che aspirano il fondale marino in cerca di stagno rigettando sabbia e materiale di scarto in mare. Secondo uno studio dell’Università di Bangka Belitung, questa pratica ha distrutto dal 30 al 60 per cento della barriera corallina, spingendo i pesci lontano dalla costa e danneggiando pesca e turismo.
La situazione sulla terraferma non è migliore. Mentre la foresta tropicale recede lasciando spazio a nuove miniere, quelle già esaurite vengono abbandonate. Nonostante le autorità richiedano alle compagnie di bonificare la terra utilizzata, l’isola è costellata di crateri.
LA COMPAGNIA STATALE dello stagno, PT Timah, sostiene che molte delle aree bonificate vengono occupate e riaperte dai minatori illegali, ma Ismed Inonu, vicerettore dell’Università di Bangka Belitung e esperto di ambiente e agricoltura, punta il dito anche contro le compagnie legali. «Una delle cause di questo disastro è il ritardo nelle bonifiche. Il governo avrebbe dovuto imporre sanzioni» spiega. Oltre a sfidare la morte ogni giorno, i minatori vivono nella costante paura di essere catturati dalla polizia, come spiegano la 33enne Malasari Amirudin e sua figlia Novi Akher, di 15, residenti nel villaggio di Batako. La sera prima, la polizia ha effettuato una retata nella miniera dove lavoravano, chiudendola. «Aspetteremo che ne apra una nuova. In genere non passa più di una settimana» sospira Amirudin, che lavora in miniera da quando aveva dieci anni. Provenienti da Pangkalpinang, il capoluogo dell’isola, madre e figlia raccolgono gli scarti di stagno che cadono dalle linee di lavaggio, un lavoro che frutta loro 20 dollari al giorno. Come gli altri minatori, non hanno idea di come sia utilizzato lo stagno.
Bangka produce il 90 per cento di tutto lo stagno indonesiano, il 95 per cento del quale viene venduto all’estero, principalmente in Cina, Asia ed Europa. Tracciare la sua provenienza è quasi impossibile: lo prova il fatto che, nonostante sia la titolare di più del 90 per cento delle concessioni minerarie del Paese, nel 2012 la compagnia nazionale indonesiana ha prodotto solo 28 mila tonnellate di stagno sulle 98 mila registrate.
Nel 2012 l’associazione ambientalista Friends of the Earth (FoE) ha chiesto alle principali compagnie elettroniche di prendersi carico della situazione ambientale a Bangka e guidare una campagna per migliorare la trasparenza nella catena di approvvigionamento dello stagno. Dopo mesi di intensa campagna, sette società hanno ammesso l’utilizzo di stagno proveniente da Bangka nei loro prodotti, avviando un gruppo di lavoro per studiare la situazione sull’isola. Finora, però l’iniziativa non ha portato a miglioramenti concreti.
LE AUTORITÀ LOCALI ammettono che la piaga dell’estrazione illegale non è semplice da sradicare. «Dobbiamo prima creare opportunità di lavoro» dice Yan Megawandi, capo del Dipartimento per la pianificazione del governo provinciale, prima di lanciarsi in un accorato appello alle compagnie elettroniche. «Abbiamo bisogno di assistenza, e penso sia giusto chiederla a chi beneficia del nostro stagno». Ismed Inonu lancia un monito sul futuro dell’isola: «Alcune specie di animali e di piante stanno già scomparendo» spiega. «Se non interveniamo ora, i danni ambientali che stiamo causando continueranno a produrre effetti. E per questo paradiso sarà la fine».