Claudio Gregori, La Gazzetta dello Sport 20/5/2014, 20 maggio 2014
FABIO ARU: «MI ISPIRO A ORAZIO»
Fabio Aru. Il nome più corto e la speranza italiana più lunga del Giro. Ecco chi è.
La famiglia «Sono nato 23 anni fa a Villacidro, a 10 km da casa. Ma sono cresciuto a San Gavino Monreale, a 50 km da Cagliari, nel Medio-Campidano. Papà Alessandro fa l’agricoltore: coltiva pesche, arance, mandarini. Mamma Antonella insegna alla scuola materna. Mio fratello Matteo, 18 anni, fa il liceo classico».
Le origini «Sono sardo fino al midollo. A casa si parla il dialetto sardo. “Ita se fadendu?” vuol dire “Che cosa stai facendo?”. “Ollu fai bei” è “Voglio fare bene”. La mia casa è a 40 km dal mare, ma sono un isolano. Ho il mare nei geni. Mi piace la pesca: alla spigola, soprattutto».
La tavola «Mi manca la Sardegna. Anche a tavola. Mi manca il porceddu. La carne arrosto: maiale, capretto, agnello. Da noi si fa il porceddu al mirto: su un vassoio di sughero fai un letto di foglie di mirto e sopra metti la carne appena tolta dalla brace. Una delizia. Tra i dolci amo le sebadas, a base di miele».
Il primo sport «Sono un tennista sfumato. Ho giocato fino a 15 anni. Campioncino? Ma nooo! Da 15 a 18 anni ho fatto mountain-bike e ciclocross. Sono venuto tardi al ciclismo. Ho fatto il giro di Lunigiana da junior. Poi ho iniziato da Under 23 con Olivano Locatelli, che mi ha insegnato ad allenarmi, ad essere competitivo».
Gli studi «Ho fatto il Liceo Classico. Il mio motto è di Orazio: “Carpe diem”, “Cogli l’attimo”. Il Classico mi ha dato una buona cultura, mi ha aperto la mente e mi ha insegnato a sacrificarmi. A scuola me la cavavo».
La strategia «Da dilettante, di solito, corri tantissimo. Passi da una corsa all’altra. Io no. La mia strategia è diversa ancora oggi. Mi sono presentato al Giro con 13 giorni di gara nelle gambe, meno di tutti. Ma è da novembre che mi alleno ogni giorno con l’obiettivo del Giro. Non ho perso un giorno. Ho fatto tre stage in quota. Due sul Teide: prima 17, poi 14 giorni. E, dopo il Giro del Trentino, sono stato 10 giorni al Sestriere fino alla vigilia del Giro. Bisogna avere birra nell’ultima settimana».
L’inizio «Sono contento della prima parte del Giro. Anche se ho preso un sacco d’acqua e sono caduto. La caduta di Scarponi è stata più devastante della mia. Mi è dispiaciuto molto, anche se per quell’incidente sono diventato la punta dell’Astana. La squadra è forte, bene affiatata».
L’obiettivo «Non mi dà fastidio essere al centro dell’attenzione. È uno stimolo in più. Sono uno scalatore. Amo le salite lunghe, non sono esplosivo, vado molto agile. Mi trovo tra campioni, lo so: Quintana, Evans, Pozzovivo. Non penso al podio, voglio solo imparare da compagni come Scarponi e Tiralongo e dagli avversari. Penso a crescere, a migliorare».
I limiti «Non conosco i miei limiti. Non so che cosa posso fare nella cronometro di Barolo. Non ne ho fatte quest’anno. Non mi conosco. So solo che l’anno scorso a Saltara sono arrivato 23°. Il Giro è per me davvero un viaggio di scoperta».
Le passioni «Mi faccio sempre il segno della croce al via e non si tratta di un gesto scaramantico. Quando posso vado a Messa la domenica. Credo nella cultura. Leggo. L’ultimo libro che ho letto è l’autobiografia di Djokovic. Ma amo i romanzi di Giuseppe Dessì, un sardo».
L’amore «Ho una fidanzata, Valentina. Ha 24 anni. E pedala. Abbiamo pedalato assieme con gioia». «Dei soprannomi che mi hanno dato, quello che preferisco è “Arrru”, con tre erre. Me lo diede Anita Tironi, la mia presidente quand’ero dilettante, che adesso non c’è più».
Il presente «Sei anni fa ho lasciato la Sardegna. Sono stato 4 anni a Palazzago e 2 a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. I primi due anni ho sofferto. Ho chiamato mamma tante volte. Ore al telefono, volevo rinunciare. Ma ora sono qua. E vado con gioia alla scoperta del Gavia, dello Stelvio, dello Zoncolan. Non mi spaventano, mi ispirano».