varie 20/5/2014, 20 maggio 2014
IN MORTE DI MARIO MISSIROLI
(tre articoli) -
ANNA BANDETTINI, LA REPUBBLICA 20/5/2014
A contrassegnare la storia del teatro italiano del Novecento è stata una decina, o poco più, di grandi artisti, personalità forti che hanno avuto un ruolo importante nel cambiamento e hanno condotto, col proprio lavoro, battaglie culturali per lo svecchiamento e la promozione di novità produttive.
Mario Missiroli è stato senz’altro uno di questi: un regista eclettico, uno spirito aperto, un uomo di cultura. Così è giusto ricordarlo nel giorno della sua morte, ieri, a 80 anni, nella casa di Torino dove si era ritirato da tempo, dal 2004, dall’ultima regia, Victor di Roger Vitrac, storia di un bambino gigante che sconvolge le convenzioni borghesi. E pur non essendo un radicale, anche Mario Missiroli è stato un artista inquieto, poco vicino al mainstream. Bergamasco, era andato a studiare a Roma, all’Accademia “Silvio D’Amico” nella metà degli anni Cinquanta; una volta diplomato nel ’59 approda nientemeno che al Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. E proprio con il geniale regista del teatro milanese, Missiroli fa il suo apprendistato come assistente in capolavori che sono El Nost Milan, L’opera da tre soldi, Schweyk...
Una scuola “superiore” che, unita a un talento culturale vivace, dà presto i suoi frutti: nel 60, a soli 27 anni, l’allora promettente Missiroli metta in scena La Maria Brasca che segna l’esordio teatrale di Giovanni Testori, ma anche l’avvio di un percorso nei nuovi autori e nella nuova drammaturgia che sarà un’altra costante del teatro di Missiroli, anche amico personale di scrittori e intellettuali.
Dal romanzo di Alberto Arbasino, per esempio, La bella di Lodi, realizzò il bel film con Stefania Sandrelli nella sua breve stagione cinematografica all’inizio degli anni Sessanta quando aveva deciso di lasciare il Piccolo e tornare a Roma. Una volta nella capitale, il regista partecipa a una serie di esperienze d’avanguardia, su autori allora trasgressivi (vedi Evita Peron di Copi del ‘71) con “il gusto dell’eccesso” che è sempre piaciuto a Missiroli, come scrisse di lui il critico Franco Quadri su queste pagine.
Ma l’avventura decisiva arriva con l’approdo a Torino, alla direzione dello Stabile: Missiroli ci resterà dal ‘76 all’84 e a quel teatro darà finalmente un’identità artistica, grazie anche a una compagnia di attori di forte personalità a cominciare da Anna Maria Guarnieri, compagna di vita e protagonista dei suoi lavori di questi anni. Non per niente lo Stabile torinese oggi, oltre alla commemorazione del ministro alla Cultura Dario Franceschini, ricorda con affetto il regista nelle parole della presidente Evelina Christillin e del direttore Mario Martone e sempre lo Stabile (nella sala del Teatro Gobetti) domani allestirà la camera ardente, dalle 10 alle 18, per l’ultimo saluto.
A Torino nascono spettacoli che hanno inciso nel panorama del teatro italiano: Orgia la prima regia non pasoliniana del dramma, e riletture di classici come Verso Damasco di Strindberg, La trilogia della villeggiatura e una memorabile edizione dei Giganti della montagna , un Pirandello racchiuso in una “conchiglia” di grande spettacolarità. A Torino seguirà dal ‘90 la stagione di collaborazione con il Teatro di Roma, di cui si ricorda Ulisse di Savinio con Viginio Gazzolo e Ilaria Occhini, la Lulu di Wedekind, Nostra Dea di Bontempelli con Carla Gravina, sempre per continuare con i cast di grandi attori cui si dovrebbe aggiungere Arnoldo Foà, Anna Marchesini, Corrado Pani... Gli ultimi anni, Missiroli lavorerà in prevalenza nel teatro privato, dove viene meno il carattere innovativo del suo lavoro ma non quello moderno, come dimostrano Il Vittoriale degli italiani di Kezich nel 90, la Medea al Teatro Greco di Siracusa nel 96, e prima ancora nel ‘94 la bellissima Fastidiosa di Franco Brusati con Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi.
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OSVALDO GUERRIERI, LA STAMPA 20/5/2014 -
Ieri, a ottant’anni, il regista Mario Missiroli è morto. Negli ultimi tempi si era ammalato, respirare era diventato un suo tormento, ma finché ha potuto ha portato in giro la sua prodigiosa vitalità di dandy elegantissimo e ironico. Si esprimeva anche con elevate punte di edonismo. Una sera – erano gli Anni ’80, aveva appena realizzato Antonio e Cleopatra di Shakespeare – riceve dietro le quinte un dono. Legge con compiacimento il biglietto, dopo di che lacera l’involucro, apre la scatola, ne estrae una bottiglia di whisky e sui due piedi ne ingolla una porzione degna di un irlandese felice: apprezzava e di accettare tutto dalla vita. Senza rinvii. Sembrerà strano. Missiroli ha dovuto attendere la rispettabile età di 78 anni per vedersi ritratto e analizzato in un libro curato da Andrea Rabbito e intitolato Il moderno e la crepa. Questo volume ha colmato un vuoto inspiegabile, poiché Missiroli è stato per cinquant’anni un protagonista della creazione teatrale, un inventore dalla voce sarcastica e educatamente provocatoria, la sua caratura di artista è stata certamente europea. Ciò nonostante, silenzio.
Missiroli non è stato sempre regista di teatro. Bergamasco, è cresciuto a Milano nel fervido clima del dopoguerra tra Piccolo Teatro e Scala. Amava il melodramma e ha pure studiato un po’ di musica. Ma fornì le sue prime prove importanti nella letteratura e nel cinema. Negli Anni ’60 scrisse con Alberto Arbasino Amate sponde!, un cabaret abnorme sulla storia patria, e sempre con Arbasino girò il film La bella di Lodi, riservandosi anche una parte d’attore accanto a una luminosa Stefania Sandrelli. Il cinema lo interessava, ma richiedeva un’applicazione che sapeva di non avere. Quindi si concentrò su ciò che, intanto, aveva cominciato con Strehler: il teatro.
Fu tuttavia allo Stabile di Torino che forni le prove più significative del suo lavoro di regista. Vi arrivò nel 1976 e se ne allontanò nel 1984. In otto anni, circondato da attori di alto livello, da Annamaria Guarnieri a Glauco Mauri a Valeria Moriconi, mise in scena la Trilogia della villeggiatura di Goldoni, Zio Vanja di Cechov, I giganti della montagna di Pirandello, Verso Damasco di Strindberg, La mandragola di Machiavelli. Li citiamo alla rinfusa quei suoi spettacoli che, eleganti nel segno, non lasciavano mai indifferenti le platee e anzi aprivano squarci fortemente innovativi come I giganti, o magari molto disturbanti, come la scena finale di Antonio e Cleopatra in cui si scorge Adolfo Celi appeso a un verricello come una bestia macellata. In ogni creazione Missiroli partiva da un principio rubato al suo maestro Bertolt Brecht: doveva impedire che nello spettatore scattasse la trappola del coinvolgimento emotivo, occorreva che tra platea e palcoscenico ci fosse una intercapedine critica. Era il famoso concetto di straniamento, che Missiroli rielaborava con una coerenza mai terroristica. Potremmo dirla delicata.
Conclusa l’esperienza di Torino, cominciò l’attività del libero professionista. Missiroli andava dove lo chiamavano. Roma, Palermo, la Sardegna, dove realizzò un pregevole Victor o i bambini al potere di Vitrac. Nel frattempo aveva messo a rumore le cronache per una lite furibonda con Tognazzi. Dovevano mettere in scena L’avaro di Molière, ma inseguivano visioni opposte e l’accoppiata si sciolse. Fu inventato per Tognazzi un attacco di sciatalgia. La verità venne a galla quando L’avaro cominciò a girare. Missiroli non avrebbe mai firmato quel pastrocchio.
Poi, d’improvviso, nessuno lo cercò più. Il regista che non faceva esplodere i vasi, ma provocava crepe critiche nelle drammaturgie più consolidate, era forse fuori gioco. Vissuto sempre nella modernità, si scopriva improvvisamente démodé. Sembrava non ci fosse più posto per la sua fulminante intelligenza. Parlava di «un paese fallimentare», il cui «livello politico è diventato miserabile». Era il suo ultimo rammarico.
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RITA SALA, IL MESSAGGERO 20/5/2014 -
Per raccontare chi sia stato Mario Missiroli, il grande regista teatrale morto a Torino all’età di 80 anni, basterà ricordare un suo spettacolo visto a Roma, al Quirino, nel febbraio di undici anni fa, La nemica, di Dario Niccodemi, cavallo di battaglia di dive della scena d’antan quali Maria Melato, Irma Gramatica, Dina Galli, Elena Zareschi. Il drammone del livornese Niccodemi, scritto nel 1916, annega nel melo. C’è una Duchessa madre (in quell’occasione Valeria Moriconi) incapace di amare un figlio che non è tale, in quanto frutto di una relazione prematrimoniale del marito. Ed entrano in ballo la guerra, la partenza per il fronte del figlio vero, Gastone, e del “figlio” odiato, Roberto. Che si salverà, al contrario del fratellastro. Sentimenti esasperati, giochi del destino, agnizioni ed enfasi portano all’epilogo strappalacrime. Ci si aspettava che Missiroli - iconoclasta, avveniristico, sperimentale - attualizzasse il testo, lo sezionasse, lo ridicolizzasse, gli cambiasse i connotati. Fece esattamente il contrario. Pensando ai venti di guerra che turbano anche la nostra quotidianità e agli affari delle famiglie, fomentati dalle questioni di corna, volle che la Moriconi e gli altri attori “vivessero” la tragedia a tutto tondo. Credendoci. E fu un successo.
CONTROCORRENTE
Spiazzante, colto, amante del paradosso e della versione grottesca (ma sempre divertente) della vita, il bergamasco Missiroli ha odiato l’ovvietà forse più di ogni altra dimensione possibile. Direttore dello Stabile di Torino dal 1976 al 1984, è stato uno dei registi innovativi della scena teatrale italiana del secondo Novecento. Ha lavorato con attori di gran calibro, dalla Moriconi alla Asti, da Moschin a Tognazzi, dalla Proclemer a Umberto Orsini, Glauco Mauri, Laura Betti, mettendoli al centro di spettacoli sempre originali, spesso controcorrente, mai privi di una fondata ragione che giustificasse ogni “oltraggio”. Missiroli affrontava infatti i testi con estremo rigore, pur mutandoli d’epoca, ambientazione, tono. C’è chi ricorda una sua Mandragola realizzata à la manière del cabaret tedesco anni Venti. Non era frenato nemmeno dai classici, che anzi lo stimolavano a far vivere i loro valori universali e la loro lezione nella società italiana del presente.
Amava attribuire la sua teatralità alla frequentazione della Milano del dopoguerra, che lo nutrì a dismisura di lirica e prosa. Considerava quasi un destino l’aver requentato l’Accademia d’arte drammatica e l’essersi avviato alla regia. Fu assistente di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro, e di Valerio Zurlini sul set. Nel 1963 diresse il film La bella di Lodi, con Stefania Sandrelli. Ma la sua passione vera rimase il palcoscenico. E lo affermò, a partire dai mitici Sessanta, con spettacoli quali La Maria Brasca di Giovanni Testori, Eva Peron di Copi, La locandiera e Trilogia della villeggiatura di Goldoni, Il Tartufo e Il malato immaginario di Molière, Zio Vanja di Cechov, I giganti della montagna e Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello.
IL TEMPO
Con il passare degli anni, Missisoli ha incupito e rabbuiato il suo teatro, affidandolo a un vortice di pessimismo che riusciva a cancellare la proverbiale unghiata rivoluzionaria a vantaggio di uno sguardo critico di volta in volta più spietato. Ha comunque e sempre cercato un senso preciso del fare, una motivazione della felicità e dell’errore, una spinta primaria alla rappresentazione cui si potesse risalire senza doverla attribuire al già visto, al già detto, al già fatto.
Vincitore del Premio Pirandello nel 2012, poco ha concesso alla mondanità, alle interviste, al colore. Nel 2002, durante un convegno sullo stato di salute del teatro italiano, si scagliò profeticamente contro la mancanza di progettualità e la burocratizzazione di un ambiente cui dovrebbero appartenere «non i funzionari, ma gli artisti». Vecchio e amaro come Nestore, irato come Achille, impotente come Crise sulla riva del mare al momento di affidare la propria pena, per mancanza di interlocutori, al dio Apollo.
Rita Sala