Riccardo Radaelli, Avvenire 20/5/2014, 20 maggio 2014
SE CROLLA TRIPOLI PORTE APERTE ALL’ESTREMISMO
A lungo il ruolo della Libia come perno geopolitico nel Mediterraneo è stato sottostimato. Il Paese è stato spesso messo in ombra da vicini molto più determinanti per la storia del mondo arabo, come l’Egitto o l’Algeria, o maggiormente legati all’Europa, come Marocco e Tunisia; oppure preso poco sul serio per via del lunghissimo dominio di un tiranno come Gheddafi, sì crudele, ma che colpiva soprattutto per le sue bizzarrie personali. Insomma, il Paese era uno scatolone di sabbia, ricchissimo di petrolio e con cui fare possibilmente buoni affari, ma scarsamente popolato da un insieme di tribù che non potevano aspirare a influenzare il mondo arabo. Certo, il numero di libici che militava nelle file dello jihadismo mondiale era impressionante, ma vi era sempre chi se la cavava con la battuta superficiale che forse “dipendeva dal fatto che la Libia fosse troppo noiosa”.
Che il Paese avesse una sua centralità nei fragili equilibri di questa complicata regione, lo si è capito – per così dire – in negativo. Allorché, franato il regime gheddafiano, il Paese è scivolato lentamente lungo la china dell’anarchia e della frammentazione. Le conseguenze sullo scenario di sicurezza regionale non hanno mancato di palesarsi rapidamente: i suoi deserti, una volta perso il controllo lungo i confini meridionali, sono stati sempre più attraversati da decine – e se non centinaia di migliaia – di migranti dall’Africa sub-sahariana in cerca di disperata fortuna verso l’Europa. E che si riversano in massa sull’Italia, dato che le autorità libiche sono troppo deboli, o spesso troppo corrotte, per fermali. Si è creata nel sud un area di nessuno di cui beneficiano soprattutto jihadisti, milizie estremiste, trafficanti di ogni genere di commerci. Si rischia insomma una pericolosa saldatura, attraverso la Libia, di aree di instabilità, che partono dal Corno d’Africa (Somalia innanzitutto) a oriente fino al Mali e al Nord Nigeria a Occidente.
Si sono moltiplicati i campi di addestramento jihadisti e qaedisti, sorti spesso grazie al ritorno in patria dei tanti combattenti libici del jihad, che possono fungere da volano per una nuova generazione di combattenti e terroristi, soprattutto ora che l’Egitto usa la mano pesante contro la fratellanza musulmana.
Le milizie contrapposte che spadroneggiano nel Paese hanno paralizzato ogni scelta politica e rischiano di frantumare definitivamente il Paese, creando uno spaventoso vuoto geopolitico fra Africa ed Europa meridionale. Gli investimenti occidentali nel settore degli idrocarburi e i lavori di ricostruzione sono fortemente a rischio, dato che l’instabilità ha di fatto bloccato l’export di petrolio, con le opposte milizie che taglieggiano continuamente le attività produttive. Vi è poi il problema armi: 60 milioni per sei milioni di libici, che hanno provocato un fiorente mercato clandestino. Si è sempre detto che, finora, i libici le avevano usate solo in minima parte. Finora.
Insomma, il rischio è la cristallizzazione dell’anarchia e della frammentazione: un mega Stato fallito alle nostre porte, privo di controllo, che rischia di diffondere settarismo e violenza verso i vicini e il nostro continente. La paura, insomma, non è che un nuovo uomo forte prenda il controllo. Ma che nessuno sia ormai più in grado di farlo.