Giampiero Calapà, Il Fatto Quotidiano 19/5/2014, 19 maggio 2014
“NIENTE BETTOLE E BASTA RISSE: SONO CRESCIUTO”
Di far risse, guerre, scommesse e mille schifezze in una bettola notturna sulla lunga Casilina si è stancato. Alessandro Mannarino, 34 anni, un successo che ormai lo accompagna da quel primo album, “Bar della rabbia” del 2009, è tormentato. Lo è stato in questi mesi, mentre preparava “Al monte”, il suo terzo disco. Tormentato “dalla paura – si confessa – di diventare una macchietta, di essere per sempre considerato quello che canta andamose a ubriacà, confinato in un’idea di ribellione sgangherata, autoemarginante, che non porta a nulla se non alla bottiglia nella bettola notturna e poco raccomandabile. Mi ero costruito dei personaggi che mi facevano compagnia nella Roma berlusconiana dei suv e delle camicie inamidate”. I personaggi del bar della rabbia “che ridono e piangono insieme”. In quel momento, dentro alla bettola, arrivò “un piccolo successo, ma per me esagerato, la gente cantava con me”. Nel 2011 esce il secondo album, “Supersantos”, nome di una metropoli immaginaria, ma non troppo diversa da Roma. La ribellione è continuata, ma non più così sgangherata. C’erano eroi a cui far riferimento, su tutti Maria Maddalena.
Quindi, Mannarino, oggi ha tirato fuori dal suo inseparabile cilindro nove canzoni che non sono il suo solito folk, il filo conduttore è “una viaggio dalla città al monte, un percorso per osservare il mostro della metropoli con gli occhi disincantati dello straniero”. Ad esempio, vede Mannarino, la violenza e le botte sul corpo di Stefano Cucchi, perché il brano “Scendi giù” “racconta la vendetta nei confronti di una giustizia che vuol essere uguale per tutti: ma noi non siamo tutti uguali, perché c’è chi nasce nella fogna e muore, muore preso a botte”.
Qualcuno potrebbe dire che il nuovo Mannarino, quello che ha abbandonato la rivolta sgangherata e fine a se stessa della lunga Casilina, è diventato un cantore della sinistra del 2014, “ma quella parola ormai è svuotata di senso, compromessa da chi ne ha sporcato il significato”. Di certo ci sono le giornate particolari del nuovo Mannarino, un giovane cantautore che temeva di non poter uscire dal vecchio se stesso, tanto da cambiare quartiere a Roma, che temeva di non essere capito da chi in questi anni si è divertito con le sue ballate più spensierate.
“Invece mi sta succedendo una cosa incredibile”: Torino, Milano, Roma, Bari, Palermo e Napoli. “Feltrinelli stracolme, a Milano ci saranno state mille persone, l’affetto è commovente”. E ora rimane tormentato, ma “dal petto il tormento arriva al cuore e poi in faccia diventa un sorriso”. Perché questo album, questa salita al monte, “nasce da due anni di lavoro, di ricerca, anche di isolamento; sono stati fondamentali alcuni viaggi in Sudamerica: Brasile e Cuba, ma anche le ore trascorse con le cuffie in metropolitana a Roma”, sotto la pancia della città, prima della salita al monte. “In Brasile mi hanno dato tanto cantautori come Chico Buarque, riescono a cantare cose strazianti con un distacco e una leggerezza invidiabile”.
Insomma non ci sarà più il Mannarino delle ballate più spensierate? “Questo non è detto, bisogna scendere dal monte a un certo punto. Per questo album avevo pronte ventidue canzoni, alla fine ne ho tenute nove, perché quelle di pura evasione non avevano senso oggi, ma chissà come sarà il Mannarino del prossimo album”.
Appena finito un lavoro, ancora in giro per presentarlo, nell’imminenza dell’inizio di un tour che lo porterà ancora in giro per l’Italia fino all’autunno, Mannarino ha già la testa al quarto disco: “Sì, mi trasferirò per un po’ di tempo in Brasile, per ritrovare quel senso di irripetibilità della vita, quel calore, i sorrisi e la musica ovunque”. Perché qui, in Italia, “dal monte ho visto questa depressione galoppante, imposta da chi ci ha fatto credere che valiamo per quello che abbiamo”.
Twitter @viabrancaleone
Giampiero Calapà, Il Fatto Quotidiano 19/5/2014