Emiliano Liuzzi, Il Fatto Quotidiano 19/5/2014, 19 maggio 2014
DON CAMILLO, L’ULTIMO FILM NASCOSTO IN UN CAVEAU
Brescello (Reggio Emilia)
Erano gli inizi di agosto di un’estate caldissima, quella del 1970. Da quelle parti, dove il Po cerca di asciugarsi, ci sono Orietta Berti che canta “Finché la barca va” e i Nomadi “Un pugno di sabbia”. L’epoca precedente e quella successiva della canzonetta. Ma non sono solo le rime a cambiare: il divorzio è appena diventato legge, Italia-Germania è finita 4 a 3, i giovani dei movimenti studenteschi hanno perso la loro verginità, a Milano e a Pisa nelle manifestazioni sono apparse le prime pistole. Fernand Joseph Désiré Contandin, in arte Fernandel, è a Brescello con Gino Cervi per completare l’ultimo dei suoi film, Don Camillo e i giovani d’oggi. Il Paese è già cambiato, non è più quello raccontato da Giovanni Guareschi dalle pagine di Candido, alla saga di Peppone e Don Camillo, il sindaco comunista e il parroco, deve aggiungersi l’ultimo capitolo, quello finale. Il primo a colori, il film più bello dei cinque precedenti, a detta dei protagonisti. Appunto perché è il film dei tempi che stanno cambiando: l’ultimo era stato girato e distribuito nel 1965, e l’Italia era un altro Paese. Tanto per intenderci nel film c’è un esordiente Giancarlo Giannini nella parte di Veleno, il figlio maoista di Peppone, Graziella Granata che è Cat, la nipote hippy di Don Camillo, nonché una comparsata del complesso beat allora molto conosciuto dei Rokes. Un altro Don Camillo, insomma.
OTTO SCENE ALLA FINE
Mancano poche scene alla fine, otto. L’opera è praticamente compiuta, quando Fernandel si sente poco bene. Va dal regista, Christian Jacque, che gli dice di andare a casa, a Marsiglia e di riguardarsi un po’. “È ferragosto, qui fa caldo, è stato un mese intenso, vai e riposati. Appena stai meglio completiamo il film. Sarà un’influenza, non preoccuparti. Noi siamo qui che ti aspettiamo, faccio fare un po’ di vacanza a tutti, ne abbiamo bisogno”. Fernandel non aveva un’influenza: morirà il febbraio successivo in una clinica di Parigi. E quel film resterà un miraggio nei racconti dei protagonisti e delle comparse che a Brescello, come sempre, si misero a disposizione della troupe e del produttore, la Cineriz del mitico Angelo Rizzoli, il cummenda, il martinitt che costruì un impero. E di quella pellicola oggi non si sa più niente. C’è chi dice che andò distrutta nell’incendio degli studi del Palatino, a Roma, chi invece sostiene (è la tesi più accreditata) che sia ancora oggi in un caveau di proprietà dei Lloyd’s, la compagnia di assicurazione con la quale lavorava la Cineriz. A dire il vero il film era praticamente pronto e la produzione voleva portarlo a termine: con qualche ritocco alla trama avrebbero potuto dargli un finale anche senza Fernandel . A quel punto però fu Gino Cervi, bolognese spigoloso, attore imponente, a fare la voce grossa: “Io senza Fernandel non torno in scena. Il film non è completato, morto lui muore Don Camillo, ma anche Peppone”. Non ci fu verso. Rizzoli ci provò in tutti i modi a convincerlo. Sarebbe stato un colpo grosso, andare nei cinema anche sulla scia della morte di Fernandel sarebbe stato un successo sicuro. Ma non ci fu verso. E senza il sì di Cervi il film non poteva essere completato.
UNA STORIA D’AMICIZIA
Storia d’altri tempi. Una storia d’amicizia e di onestà intellettuale. La produzione provò a rincarare la dose con un’offerta aggiuntiva di soldi a Cervi, che non ne volle assolutamente sapere. E a quel punto anche Rizzoli si convinse che quel piccolo albero di soldi, come viene definito ancora oggi, dovesse restare così. Non resta molto di quella estate del 1970. Un cronista della Gazzetta di Reggio andò sul set e riuscì a strappare qualche parola a Fernandel: “Credo che questo sarà il più bel film della serie di Don Camillo e Peppone: i primi due lavori sono stati molto buoni, gli altri tre pure buoni ma un poco convenzionali. Ora non vi sono più tre soli personaggi, Don Camillo, Peppone e Cristo: vi sono anche i giovani, arriva la contestazione, che poi è una cosa vecchia come il mondo”. Era qualche giorno prima del malore e del ritorno dell’attore a Marsiglia.
La storia sarebbe rimasta sepolta se non ci fossero stati due ragazzi di Brescello, Ezio Aldoni e Andrea Setti, che hanno speso gran parte delle loro carriere per ricostruire tutta la storia di Peppone e Don Camillo, i film, le foto di scena. E sono arrivati anche all’opera incompiuta. In particolare a quella immagine che segna la fine della carriera di Fernandel, probabilmente l’ultima a disposizione. Il giorno della ripresa è il 29 luglio. Fernandel-Don Camillo, nella torrida piazza di Brescello, deve prendere in braccio la nipote in minigonna per riportarla in canonica. L’attrice, Graziella Granata, all’epoca pesava meno di cinquanta chili. Ma Fernandel non ce la faceva a sollevarla, dovettero ripetere la scena una decina di volte. È il primo segnale - come ricostruiscono Aldoni e Setti – che c’è qualcosa che non va. L’attore si fa visitare da un medico di Brescello che gli consiglia una visita specialistica, ma non sembra niente di più grave che un normale affaticamento. A gennaio Fernandel dice che è pronto a tornare, ma non accadrà.
Così l’unica testimonianza arriva ancora grazie alla Gazzetta di Reggio che intervista il regista: “La mia intenzione è di fare un Don Camillo molto diverso dagli altri 5 precedenti perché voglio addirittura riuscire a realizzare una garbata satira sullo stesso film e sui suoi precedenti. Sarà una satira moderna, anticonformista e antitutto... Il mio intento è di fare un film che piaccia soprattutto ai giovani... La conclusione del film è che il più giovane e moderno contestatore rimane sempre Gesù Cristo, che è stato anche il primo”.
Ma Setti e Aldoni, in tempi più recenti, sono andati a far visita a Graziella Granata, all’epoca giovanissima: “Questa pellicola era particolare: Fernandel ne era entusiasta così come Cervi e sinceramente mi manca molto. Se solo potessi rivederne qualche scena mi farebbe molto piacere. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per un altro successo”.
Stessa cosa per Giancarlo Giannini, poco più che un ragazzino: “Mai vista nemmeno una scena, ma il film non credo che passò neanche dal montaggio”.
Resta la storia divisa a metà con la leggenda. Restano un incendio e un caveau. Le foto di scena. E i ricordi di un’Italia che era già cambiata e che oggi è talmente diversa da essere irriconoscibile. Disse Cervi: “Con Fernandel se ne va anche la saga. E’ stata irripetibile”. Non dimentichiamo che oltre che colleghi erano grandi amici. Mai uno screzio e sul set si respirava sempre una sottile allegria , nonostante i due attori fossero solidi professionisti. Il terzo della combriccola era Giovannino Guareschi, il padre della pellicola. Quando si sposò la figlia Carlotta, Cervi e Fernandel fecero da testimoni per la sposa. Questo la dice lunga sul clima d’intesa che si era creato. Grandi cene, bevute, e Spongata reggiana, un dolce da forno di pastafrolla ripieno di miele, mandorle, pinoli e uva sultanina, del quale esistono tracce a partire dal 1454.
Ci proverà due volte la Cineriz a rifare la pellicola. Nel 1972 con Gastone Moschin e nel 1983 con Terence Hill.
IL TENTATIVO D’IMITAZIONE
Nel 1983 si cercò un’operazione da botteghino miseramente fallita. Ma far tornare alla luce la vecchia pellicola appare un’operazione proibita. Sappiamo che è stata girata, che il film era pronto almeno all’80 per cento delle parti. Che iniziarono a girare a luglio e avrebbero dovuto concludere a settembre. Che era il film più delizioso se confrontato con i cinque precedenti. Il resto è avvolto dal mistero. Come la trama di un film, appunto. Neppure gli attori che sono rimasti sanno niente. Non ne parlò mai più il regista. E’ rimasta Una questione di ricordi, più solidi di qualsiasi fotografia o montaggio.
Emiliano Liuzzi, Il Fatto Quotidiano 19/5/2014