Armando Massarenti, domenicale – Il Sole 24 Ore 18/5/2014, 18 maggio 2014
DELITTI E PENE TRA BECKER E FOUCAULT
Gary Becker, premio Nobel per l’Economia, esponente della Scuola di Chicago, morto da poco all’età di 83 anni, non è famoso solo per la felice definizione di «capitale umano», ma anche per aver scritto, nel 1968, un saggio intitolato Crime and punishment che riprendeva un’intuizione fondamentale di Cesare Beccaria e del suo Dei delitti e delle pene, di cui ricorre il 250° anniversario. Beccaria, come Becker, ragionava da economista ed è grazie a ciò che il pensiero di entrambi assume i toni del più autentico riformismo sociale. Lo aveva sottolineato Michel Foucault nel corso al Collège de France del 1978-79, ricordando che la riforma del diritto penale alla fine del XVIII secolo, che portò a chiarire la distinzione tra delitti e peccati, danno e colpa, pena ed espiazione, «era proprio una questione di economia politica», ben riassunta nella definizione di crimine data da Becker: un crimine altro non è che un’azione che fa correre il rischio a un individuo di essere condannato a una pena. Così egli evita qualunque definizione sostanziale, qualitativa, morale o antropologica. Il crimine è ciò che viene punito dalla legge. Punto e basta. Il soggetto di fronte alla legge altro non deve essere che un homo oeconomicus. E chi lo giudica non farà alcuna differenza di tipo qualitativo tra un’infrazione al codice stradale e un omicidio premeditato. Il che potrà sembrare controintuitivo, ma offre l’enorme vantaggio che il criminale non sarà in alcun modo contrassegnato o interrogato a partire da tratti morali o antropologici. L’homo oeconomicus è un imprenditore di se stesso, un «capitale umano» che può produrre, ad esempio, un certo reddito. Ma che può anche assumersi certi rischi. Tra questi ci sono quelli relativi alla trasgressione di alcune leggi più o meno dannose per la società. Tali trasgressioni vanno certamente punite, a patto però di non confondere i crimini con altri aspetti, morali ad esempio, della vita sociale. Se davvero adottassimo questo approccio, e pensassimo, come Beccaria, a eliminare tutti gli aspetti inutili e dannosi dei modi tradizionali di intendere le pene, forse anche la nostra «emergenza carceraria», più volte evocata dal Capo dello Stato, potrebbe trovare uno sbocco. Il problema non è estirpare o punire ogni possibile crimine, riempiendo inutilmente le carceri, ma chiedersi qual è il danno sociale ed economico che ogni crimine davvero comporta. La domanda essenziale della politica penale non è tanto «Come punire i crimini?», e neppure «Che cosa bisogna considerare un crimine?», ma, al contrario, direbbe Becker, «Che cosa possiamo tollerare come crimine?». O, meglio, come riassume bene Foucault: «Che cosa sarebbe intollerabile non tollerare?».
@Massarenti24
Armando Massarenti, domenicale – Il Sole 24 Ore 18/5/2014