Alfonso Ruffo, Il Sole 24 Ore 18/5/2014, 18 maggio 2014
QUEI BENI CULTURALI CHE NON DIVENTANO IL PETROLIO ITALIANO
Con la cultura si può mangiare o no? Può il patrimonio artistico paesaggistico architettonico del Bel Paese diventare fonte di ricchezza e di lavoro per tanti giovani che oggi emigrano o restano a far nulla? Può, in particolare, trarre profitto dalle sue bellezze un Mezzogiorno sempre più sospinto verso la povertà?
Sì, no, forse… a certe condizioni. La risposta non è ancora unanime ma si fa strada con sempre maggiore forza l’idea che non si possa continuare a scrivere sui giornali e sostenere nei convegni che chiese e musei con il loro contenuto di quadri, statue, gioielli siano i nostri giacimenti di petrolio per poi rinunciare a estrarne il valore.
Questa volta il tema è nazionale: riguarda l’intero Stivale, dove si dice sia concentrato almeno il 50 per cento dell’intero patrimonio mondiale. Valutazione forse eccessiva ma che dà una misura alla grandezza del fenomeno. Il 60 per cento dei beni italiani sarebbe stipato al Sud, dove lo spreco diventa regola e i casi di cattiva amministrazione non si contano. Dunque, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza intorno all’argomento quantificando per quanto possibile le grandezze di un settore che potrebbe dar da vivere a milioni di persone con impieghi qualificati. L’operazione non è facile soprattutto per la reticenza dei cosiddetti esperti ma non è nemmeno impossibile. Certo, bisogna accontentarsi di approssimazioni. La Corte dei Conti stima che il patrimonio culturale italiano valga almeno 234 miliardi di euro. Le regioni meridionali fanno la parte del leone e la massima concentrazione è in Campania, dove solo Napoli può vantare una dotazione indicata in 50 miliardi di euro. Tutto questo, però, rende molto meno di quanto potrebbe. (Emblematico in Calabria il caso dei Bronzi di Riace).
Secondo il rapporto di Federculture, infatti, i siti del Mezzogiorno hanno attratto nel 2012 appena il 20,5 per cento dei visitatori nazionali (7,4 milioni di persone) e incassato il 24,8 per cento del totale (28 milioni di euro). Grande patrimonio, quindi, e scarsa capacità di farlo fruttare. Anzi, gli episodi di spreco e degrado riempiono le cronache con grande danno d’immagine.
Se la distanza di perfomance con il resto del Paese resta elevata - il che vuol dire che è addirittura siderale nei confronti di quanto accade in città del mondo con poco prodotto e tanta organizzazione - il poco Sud che esprime qualche segno di vivacità è racchiuso nel triangolo Pompei Ercolano Reggia di Caserta con il 43 per cento delle presenze e il 75 per cento degli introiti.
In rimonta un complesso unico e irripetibile come il Tesoro di San Gennaro – accreditato di essere il più ricco in assoluto, più di quello della Corona d’Inghilterra e degli Zar di Russia – che lo scorso anno ha lasciato il luogo blindato in cui è custodito per una tournée europea alla quale potrebbero seguire altre e fruttuose trasferte.
Il primo tabù che deve cadere, e qualche crepa nel monolitico muro di accademici e sovrintendenti comincia a intravedersi, è proprio l’apprezzamento dei beni che abbiamo ereditato e che ci circondano. Attribuire un valore non vuol dire sminuire o creare le condizioni per la vendita (tra l’altro impossibile). Significa solo essere consapevoli della fortuna che si ha.
Alcuni studi sostengono che la capacità di estrarre valore da un bene culturale sia negli Stati Uniti sedici volte maggiore che in Italia. Sedici volte maggiore: basta questo dato a suggerire quanti spazi di miglioramento ci siano e quanto reddito da recuperare e quanta occupazione da offrire. Tanto più che l’Unione europea mette su questo piatto 1,8 miliardi di euro (2014-2020).
Per tutti questi motivi l’assessore alla Cultura della Regione Campania, Caterina Miraglia, si è voluta dotare per la prima volta di un piano strategico sulla conoscenza e il miglior utilizzo dell’ampia dotazione regionale affidando al sociologo Domenico De Masi, già fondatore del celebre Festival di Ravello, la compilazione di una ricerca approfondita e dettagliata.
La discussione con studiosi amministratori e imprenditori durerà tutto il mese di maggio in una serie di confronti ospitati in quella meraviglia della natura e del genio dell’uomo che è il Belvedere di San Leucio dove il re Ferdinando I di Borbone volle realizzare il suo esperimento di fabbrica comunista che ha dato vita alle più belle e celebrate sete del globo. Chissà che il modello non possa essere preso in considerazione anche altrove restituendo vita economica a un’eredità che oggi ci costa più di quello che rende.
Alfonso Ruffo, Il Sole 24 Ore 18/5/2014