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 2014  maggio 18 Domenica calendario

VALENTINA CORTESE

[Intervista] –

Valentina Cortese è ancora la signora evanescente e ironica di Effetto notte , di François Truffaut: «Impazzii di gioia quando mi chiamò. Lui era un genio al servizio della gentilezza», dice. «Un uomo che aveva provato la sofferenza del riformatorio e l’ebbrezza del successo. Potrei perfino riconoscermi in lui, nella sua storia», aggiunge con un tocco di nostalgia.
Nel senso che anche lei ha avuto un’infanzia difficile?
«Sono, quel che un tempo si diceva, una “figlia illegittima”. Con una madre troppo giovane per accudirmi. Fui affidata a una coppia di contadini. Quando la mia vera madre veniva a trovarmi mi nascondevo nello sgabuzzino. Non volevo che mi portasse via, anche per un solo giorno. Il mio mondo era tutto lì: in quella campagna lombarda dove, anche nella miseria, sono stata molto felice».
Si avverte il pathos.
«Sono stati anni duri e compassionevoli. Appresi la semplicità dall’amore di due persone meravigliose che mi hanno accudita; e, al tempo stesso, sentii l’inquietudine per il fantasma materno che ogni tanto aleggiava. Le paure dell’infanzia mi hanno reso insofferente e forte».
Cosa rimprovera e cosa perdona a sua madre?
«Rimprovero la sua sventatezza, e il fatto che non c’era spazio per me nei suoi sogni».
Cosa faceva?
«Voleva essere una pianista, una grande concertista. Non ne ebbe la forza e forse il talento. Quanto al perdono, non lo so. La nostra storia si concluse abbastanza miseramente un giorno del dopoguerra nel ristorante dell’hotel Flora di Roma».
Che accadde?
«Volevo riconciliarmi con lei. La mia vita aveva preso a funzionare: c’era il lavoro nel cinema, e l’amore per un uomo come Victor de Sabata. Tutto quello che di spigoloso c’era stato tra noi due si andava smussando. Le comprai un gioiello, come segno di affetto. E quando mi vide cominciò a insultarmi e a dire che era un’offesa che io stessi con un uomo di trent’anni più grande di me».
E lei come reagì?
«Non ci potevo credere. Guardavo le sue mani che serravano violentemente i manici della borsetta. Aprii il regalo, meccanicamente. E quando vide il rubino si placò all’istante. Fece per afferrarlo, glielo strappai di mano. E fuggii via. Non ho più rivisto quella donna. Non ha più messo piede nel mio cuore».
E suo padre lo ha mai conosciuto?
«L’ho visto qualche volta da bambina senza sapere chi fosse. Credo che mi guardasse con una certa attenzione. Ma non sapevo nulla di quell’uomo. Andai al suo funerale. Forse spinta dal desiderio di conoscere la persona che aveva contribuito a mettermi al mondo. Mi sembrò tutto triste. Di una tristezza senza luce. Ricordo che mi allontanai dalle mie sorellastre con la sensazione che davvero qualcosa si era definitivamente chiuso».
Accennava al suo amore con il direttore d’orchestra Victor de Sabata. Vista la differenza di età, è stato in qualche modo il padre che non ha avuto?
«Ho amato molto Victor. Avevo 17 anni la prima volta che ci incontrammo. Fu un uomo speciale e meraviglioso. Persi la testa. Lasciai il liceo, mi trasferii a Roma e mi iscrissi all’accademia d’arte drammatica. Era un modo per stare con lui, vivere con lui, accompagnarlo nelle tournée. Mi chiede se sia stato un padre? Ma un padre non fa l’amore con una figlia. Però mi ha insegnato molte cose. Tranne una».
Quale?
«Che i grandi amori portano spesso grandi dolori. Victor era sposato, aveva dei figli. Pensavo che tutto si potesse ricomporre alla luce dei nostri sentimenti. Ma non fu possibile. Capii che i figli avevano ancora bisogno di lui. Per questo, molto a malincuore, accettai l’invito di andare a Hollywood».
Che anni erano?
«La fine degli anni Quaranta. Durante la guerra avevo fatto cinema con Carmine Gallone, Alessandro Blasetti. Conosciuto e frequentato Rossano Brazzi, Massimo Girotti, Alida Valli. Era bellissima Alida. Le offrirono un contratto a Hollywood poco prima che l’offrissero a me. Lei andò senza patemi. Io dovetti trovare la forza interiore. Per me Hollywood voleva dire mettere una distanza incolmabile tra me e Victor».
Com’era quel mondo che ogni attore vorrebbe frequentare?
«Luci e ombre, come tutte le cose. Ricordo la serie infinita di cocktail nelle case di attori famosi dei quali sarei diventata amica. Potevi incrociare Orson Welles, sempre con il suo bicchiere di whisky e a caccia di produttori, Walt Disney e perfino Thomas Mann, che aveva finito il suo esilio americano. Soprattutto all’inizio fu piacevole».
E in seguito?
«Ero stata messa sotto contratto dalla Fox. Nei primi mesi era tutto un susseguirsi di incontri con registi e produttori. Finalmente Jules Dassin mi contattò per girare I corsari della strada, avrei dovuto interpretare il ruolo di una puttana. Quello che non mi aspettavo è che Jules si innamorasse di me. Però accadde».
E lei?
«Ero lusingata, perfino attratta. Poi scoprii che era sposato, e che aveva dei figli. Mi disse che stava divorziando. Non volevo assolutamente ricadere in una situazione come quella con Victor. Ci frequentammo sul set. Restammo buoni amici. Non sapevo che la mia storia con Jules avrebbe, in seguito, preso la piega della malinconia. Nel frattempo sposai Richard Basehart. Non fu un grande affare».
Perché?
«Dick era un uomo bello e incostante. Lo avevo conosciuto sul set di un film diretto da Robert Wise. Mi raccontò di essere rimasto vedovo. E per lui provai tenerezza. Cominciammo a frequentarci. Sapeva essere molto divertente. Ci sposammo nel 1951. E per un po’ la nostra vita fu intensa. Perfino travolgente grazie a incontri con persone come Marilyn Monroe, Marlene Dietrich, Greta Garbo».
Tre donne che hanno fatto la storia del cinema. Com’erano i loro caratteri?
«Vidi la prima volta Marilyn a una premiazione. Accompagnavo mio marito. Mi colpì la sua pelle chiarissima. Sembrava una nuvola di panna montata. Mi sembrò una donna insicura, fragile e spaventata. Mi disse che odiava quei ricevimenti e i curiosi che l’assediavano. In seguito venne un paio di volte a casa nostra».
«La donna meno costruita che abbia conosciuto. Strano, no? Tutti la percepivano come la femme fatale dell’ Angelo azzurro. In realtà era una persona semplice. Nel periodo hollywoodiano ci vedemmo spesso a colazione. Le piaceva cucinare personalmente. E adorava il cibo italiano. Che dire? Era intelligente, brava, schietta. Ma anche furba. Non nascondeva nulla di sé, ma al tempo stesso dava a volte l’impressione di una donna che aveva dovuto lottare ferocemente per affermarsi».
«Fin da piccola fu il mio idolo. Appena giunsi a Hollywood il mio agente volle farmela conoscere. Ci incontrammo da Romanoff, un ristorante russo molto alla moda. Tremavo. Lo stomaco si chiuse per l’emozione. Lei parlò pochissimo. Guardavo il suo volto lunare e pensai che le leggende non sono il passato, ma il presente che irrompe e sconvolge».
«Anni dopo a Parigi, durante una sfilata di Chanel. Giorgio Strehler stava cercando un’interprete per Eleonora Duse in un film sulla sua vita. Mi venne in mente di proporle un contatto con Strehler per quel ruolo. Rifiutò. Mi disse che recitare non le interessava più. Mi stava davanti, ma sembrava remota. Ebbi l’impressione che non avesse più legami concreti con il mondo. E che forse era il mondo».
Lei nel frattempo era tornata in Italia.
«Sì, la mia esperienza hollywoodiana si era conclusa anche in malo modo. Nella più classica delle scene: il produttore che ti mette le mani addosso e si prende un bicchiere di whisky in faccia. Accadde con il grande padrone della Fox, Darryl Zanuck. Mi fece una corte insopportabile. Finì nel modo che le ho detto, durante una festa in casa sua. E fu la conclusione della mia carriera a Hollywood».
«Mi illudevo di aver costruito un quadretto di famiglia felice. Avevamo un figlio meraviglioso. Ero un po’ ingenua. Rientrammo in Italia e Fellini propose a Dick di recitare nel film La strada. Ero contenta per lui e per me. Federico era un buon amico. Come la Masina, del resto. Quello che non potevo prevedere era il tradimento di Dick.
Con chi?
«Con Giulietta. E non fu una cosa di un attimo. So che continuarono a vedersi per anni».
E Fellini?
«Non so se sapesse o meno. Del resto anche lui non era insensibile al fascino femminile. Soprattutto nell’usa e getta».
A cosa allude?
«A una storiella ormai nota. Federico si portò in macchina una di quelle attricione, che piacevano a lui: prosperose, abbondanti, vistose. Insomma, mentre andavano a Ostia, lei parlava della sua vocazione artistica, neanche fosse la Bergman. A un certo punto Federico cominciò ad accarezzarle i capelli e poi con la mano sulla nuca a spingerla verso il basso. Finalmente la poveretta capì cosa stava accadendo e, con tutto il fiato in gola, disse: “Feddericco, io artista, io no pompetto”».
Meraviglioso. Nella sua vita si intrecciano storie d’amore e di sesso. Come finì con suo marito?
«Voleva tornare a Hollywood. Restai in Italia. Ci separammo. Scoprii che mi aveva anche tradito con la baby sitter. Gli amori veri sono stati altri».
È rimasta in sospeso la storia con Jules Dassin.
«Ha continuato ad amarmi e a raggiungermi un po’ ovunque. Era un uomo malinconico. Fu bastonato dal maccartismo per le sue idee politiche. Ci scambiammo perfino delle fedi come pegno di un amore irrealizzato. Alla fine trovò la sua pace sposando Melina Mercouri. Comunque, qualunque cosa avrebbe potuto diventare non sarebbe mai stata come la storia con Strehler».
Nel senso?
«Giorgio fu letteralmente un’altra cosa. Da lui aspettavo una bambina che persi nella gravidanza. Il nostro legame si rafforzò. Al di là delle incomprensioni, burrasche, litigi, che pure ci furono. Credo che nessuno mi abbia arricchito spiritualmente e umanamente come ha fatto lui. Mi sorprendo ancora quando penso al modo in cui sapeva farmi crescere, anche nella sofferenza che pure era capace di infliggermi».
C’è una lettera finale che lui le scrive prima di morire.
Cosa prova davanti alla scomparsa di una persona che ha così amato?
«Giorgio se ne è andato una notte di Natale. È curioso che nel grande evento della nascita lui ci abbandonasse. Non c’era tristezza in lui, ma la convinzione che la sola cosa che può salvarci è il teatro. Era la sua fede».
E lei come definirebbe la sua fede, o la sua mancanza di fede?
«Ogni mattina mi sveglio sorprendendomi di essere ancora viva. Non so se Dio esiste o non esiste. È un mistero di fronte al quale preferisco restare in silenzio. Un attore deve prendere il divino dal fondo di se stesso. Se lo ha, si lasci pure possedere». Cosa è stato il suo essere attrice?
«Tutto. Ma non ritengo di essere stata un’attrice ambiziosa. Ho sbagliato tante volte, ma sono felice di aver commesso i miei sbagli. Non sarei qui, altrimenti, a parlarne. Gli errori sono come i versi mai letti di una poesia».
Mi viene in mente un suo recital su un testo di Alda Merini.
«Recitai la sua Madonna bambina di Magnificat: una donna sola contro il mondo, immersa nella bufera a difendere il figlio che le viene tolto e ucciso e con fede incrollabile ne attende la resurrezione. Solo le donne sono capaci di questi gesti».
Ha conosciuto la Merini?
«Sì, negli ultimi anni. Alda era innamorata della vita. Di fronte all’amore non capiva più niente. Mi manca la sua ricchezza interiore. Si è lasciata spremere. Non dava importanza alle cose materiali. Mi disse che il suo appartamento era freddo e umido. Le regalai un termosifone elettrico che a sua volta donò a un altro bisognoso. Quando seppe che sarei andata a trovarla in clinica, chiamò il parrucchiere e un violinista. La trovai adagiata sul letto. Il violinista attaccò una romanza. Sembrava una bambina. Morì pochi giorni dopo. E pensai che tutti noi prima o poi torniamo all’infanzia».

Antonio Gnoli, la Repubblica 18/5/2014