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 2014  maggio 18 Domenica calendario

UNO CENTO MILLE MAINSTREAM


Il primo segnale è stato il rovesciamento del “teorema Soderbergh”. Per anni questo regista si è espresso su due livelli: girava un film commerciale per gli studios e, con i soldi ricavati, se ne produceva uno “suo”, di nicchia. Da un lato Ocean’s 1-1, 1-2, 1-3, dall’altro Full Frontal , The Girlfriend Experience , Bubble . L’anno in cui realizzò il lineare, classico Erin Brockovich e il frammentato, innovativo Traffic e si vide consegnare l’Oscar per il secondo fu evidente che qualcosa stava cambiando. Al punto che, tredici anni dopo, avrebbe finito per confezionare il folleggiante Dietro i candelabri , ispirato alla vita del pianista Liberace, come prodotto per la tv, seppure a pagamento. Segno che la nicchia si era spalancata diventando il teatro del “mainstream”, la sottocultura dominante. Applausi. E imbarazzo. Un po’ come quando un partito di lotta si trova al governo. E adesso, che gli raccontiamo a questi? Non a caso Nanni Moretti, in Caro Diario , vagava per Roma proclamando agli incroci di voler restare sempre e comunque minoranza, opposizione. Nicchia, appunto. Poi, anche a lui, son toccati non solo i premi, ma il successo commerciale e la conseguente tentazione della condiscendenza.
Ora il fenomeno è generalizzato e visibile in ogni campo. Per restare al cinema, si è preso l’Oscar un prodotto come The Artist, furbo ma muto, che vent’anni fa avrebbe fatto il giro dei d’essai e poi a casa. Hanno sbancato autori alternativi come Spike Jonze o Wes Anderson il cui Grand Budapest Hotel è ancora tra i più visti in sala. Attirano pubblico e perfino divi: c’è la fila per lavorare con loro. Per Sorrentino prendono aerei da Los Angeles. Sarà vero che fa incassi mostruosi la commedia trash, ma a un certo punto del 2013 i migliori risultati per sala li aveva il vecchio capolavoro restaurato di Lubitsch To be or not to be. È un circolo spesso virtuoso. Il caso esemplare è Searching for Sugar Man . Un giovane regista (purtroppo appena scomparso) e senza fondi gira con un iPhone la storia di un musicista americano svanito dopo due dischi ma diventato (lui sì “a sua insaputa”) una leggenda in Sudafrica. Vince l’Oscar per il miglior documentario e fa di quel cantante un tardivo successo discografico, lo spedisce in tournée nel mondo e ovunque si registra il tutto esaurito. Un po’ come accadde con Buena Vista Social Club , la nicchia esplosa tra le mani di Wim Wenders. Proprio nella musica è stato coniato il termine “indiestream” per indicare artisti e prodotti nati come indipendenti ma diventati mainstream, almeno nel loro ambito. L’esempio internazionale più evidente è quello dei Sigur Ros, un complesso islandese, di lingua e sonorità oscure, ma che ha un pubblico in ogni Paese. Appartengono alla loro stessa etichetta (XL Recordings) Vampire Weekend e Jack White, qui di nicchia, ma mainstream nei Paesi anglofoni. Da noi hanno fatto lo stesso percorso gli Afterhours, le Luci della Centrale elettrica e due casi limite. Uno è Romeo Santos, il re della bachata, che senza supporto promozionale riempie i palazzetti come fosse Baglioni. L’altro è Bloody Beetroots, che parte da Beverly Hills, passa per i festival elettroalternativi di Berlino, Parigi, Eindhoven e approda al palco di Sanremo in coppia con Raphael Gualazzi.
In editoria può capitare che una piccola casa editrice specializzata in letterature europee dell’oblio come Keller si ritrovi improvvisamente in catalogo un Nobel come Herta Müller, passando dagli scaffali alle vetrine. Presto la stessa sorte potrebbe toccare a un sudamericano di “Sur” o a un aedo dello sport statunitense di “66th and 2nd”.
La trasformazione della zucca in cocchio che porta lontano è possibile per chiunque perché il palinsesto dell’approvvigionamento culturale è stato democratizzato. La disponibilità è divenuta universale. Non sono più le radio a dettare le compilation, i recensori o i premi a fare le classifiche, i direttori di rete a determinare che cosa vedere il giovedì sera restando a casa. Internet ha creato uno spazio-tempo dilatato. Accendi il computer e ti vai a cercare la musica che gira intorno, in Turchia come in Messico, poi la condividi con chi sta in Svezia. Un fenomeno come Sugar Man, che arriva clandestinamente nella valigia di una ragazza americana in visita nel Sudafrica dell’apartheid e là resta, sarebbe oggi impossibile. Ti piace? Lo linki e tre giorni dopo ha un milione di visualizzazioni. Al festival di Cannes il film più visto rischia di essere quello su Strauss-Khan che verrà diffuso online. Si va cercando come rabdomanti l’acqua in una distesa che tende all’infinito, è trascorso il tempo dei rubinetti regolati che gocciolavano liquidi rugginosi. Certo, anche dalle nicchie escono “boiate pazzesche” e a volte ci si appassiona consapevolmente al Kitsch, al “basso”, alla rivalutazione di quel che vent’anni fa, quand’era popolare, si era rifiutato. Sono cortocircuiti prevedibili e forse inevitabili. Il vero problema non è la conversione del pubblico, ma quella dell’artista. Nella nicchia dominano la libertà e la sperimentazione. Nel mainstream si vive la sudditanza psicologica dell’approvazione di massa. Lì, cambiare è un rischio. Ci voleva giusto Bob Dylan con la sua soave arroganza per imporre la “svolta elettrica” nonostante la furiosa reazione dell’uditorio nel primo concerto (Newport 1965), quando fu costretto a ripresentarsi con i vecchi, comodi abiti della versione acustica. Oppure occorreva l’appagamento di Francis Ford Coppola, per tornare, diciassette anni dopo Il Padrino parte terza con un film come Un’altra giovinezza , sgangherato, improbabile, cult. È il fascino del percorso inverso. È lì che si nascondono tracce luminose.
Troppo facile rovistare nella nicchia per cercare il prossimo successo di massa: Alan Sorrenti che passa da Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto a Figli delle stelle. Le pepite sono occultate lungo la strada inversa: quando Tornatore non tenta l’affresco déjà vu ma osa Una pura formalità, Chet Baker si esibisce nel musicarello di Lucio Fulci Urlatori alla sbarra , la Rowling scrive un giallo sotto pseudonimo rivelandosi, se non una grande autrice, una che ci prova, alla grande. Alla fine è quel che conta, nella nicchia o sul palco dei fiori.

Gabriele Romagnoli, la Repubblica 18/5/2014