Mario Serenellini, la Repubblica 18/5/2014, 18 maggio 2014
GUILLERMO MORDILLO
VENEZIA
A mille metri d’altezza, immaginandoci in vetta a una delle sue giraffe, la Laguna, là sotto, appare una pozza ingarbugliata di ponti, gondole, cupole, calli, canali, vaporetti e milioni di cucuzzoli di cappellini in trasloco di massa, di campo in campo, dei turisti di giornata. Parlare con Guillermo Mordillo, primo surrealista della giungla, intrico di giraffe, lunghissime giraffe, e di elefanti, alci, coccodrilli, ippopotami, interminabili serpenti, tucani, leoni, struzzi, tutti con gli occhioni a palla, bloccati nello stupore frontale d’immagini fototessera, significa farsi catapultare nel suo mondo animale e primordiale, lasciandosi andare di liana in liana, nei suoi labirinti grafici: foreste, metropoli, lagune.
A Venezia, dove è stato celebrato e premiato al “Cartoons on the Bay” il disegnatore argentino, ottantadue anni d’intatto entusiasmo infantile, non manca di suggestionare l’interlocutore, minimizzando come ovvie le vertigini visionarie, spiazzanti e fulminee, di quei grattacieli in cima ai quali predilige organizzare partite di pallone o di tennis o tuffi parabolici o ancora, di grattacielo in grattacielo, erba rasata e buche di golf. E sotto, gli abissi. «Se il gioco è gioco, perché non giocarlo fino in fondo, con tutte le approssimazioni e assurdità che ci vengono in mente? Confinando due squadre di calcio, per esempio, alle soglie del cielo, al posto d’un giardino pensile. A pensarci bene, non sono più surreali gli improbabili ritagli di terreno da cui i ragazzini riescono a ricavare i loro campetti? In ogni caso non c’è mai premeditazione in quel che invento. Vado d’istinto. Non ho alcuna cultura. E scarsa intelligenza. Ma sono dotato di grande istinto». La sua estrema modestia rovescia anche il rito dell’intervista, anticipando il ritratto di sé: a parole, ma con identico procedere, a strisce successive, delle sue vignette. Prima striscia: «Ho la barbetta ispida e imbiancata, sono senza capelli e basso come Maradona». Seconda striscia: «Sembro un monaco, un saggio, ma sono un diavoletto, Mordillo, cioè “morso di cavallo”, che suona più allegro del mio nome, Guillermo». Terza striscia: «Il protagonista dei miei disegni è minuscolo. Il mondo è immenso, lui è un picciuolo: una cosina infinitesima nel paesaggio, sul globo terrestre, nella galassia. Non crea però ansia, ma tanta allegria». Gag finale: «Quell’omino, c’est moi».
Le sue vignette sono zoomate disarmanti sul niente di noi mortali, il suo occhio è un telescopio cosmico, che spesso si diverte a immaginare l’ultimo gruzzolo d’abitanti accatastati sulla calotta polare d’un pianeta nudo. La sua matita appuntita è per caso la lente d’ingrandimento di Dio? «Non sono religioso. La mia famiglia era cattolica e sono cresciuto con il catechismo, che però m’annoiava a morte. Passati i cinquant’anni sono diventato agnostico. È probabile comunque che la mia visione del mondo sia ancora influenzata da quell’idea di onniveggenza, di beffardo e implacabile sguardo dall’alto, da cui mi sentivo minacciato da bambino». È un leit motiv ricorrente nelle sue vignette, come in quella della suora in chiesa, mano nella mano del prete, che alza gli occhi e esclama terrorizzata ‘‘Cielo, mio marito!’’: «Non c’è voluto molto per capire che è stato l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. A questo punto, mi sono chiesto perché mai Dio dovesse vedersi condannato a rispecchiare l’uomo anziché un animale: giraffa, elefante, cane... M’è venuto in aiuto l’inglese, dove cane è dog e Dio è God, cane ribaltato». Ama, anche nelle vignette, le simmetrie, la specularità: «Uno dei miei disegnatori preferiti, e amici più grandi, Benito Jacovitti, si divertiva a ricordarmi che lui era nato nel ‘23 e io nel ‘32, lui era alto 1.86 e io 1.68. Siamo due gemelli a rovescio, mi diceva». Nelle sue peregrinazioni artistiche e di vita, l’Italia è sempre stata tappa obbligata, per i ripetuti premi (Andersen, Tolentino, Bordighera, Lucca...), le edizioni tempestive (dalla Emme di Rosellina Archinto alla Mondadori), le mostre (alla Stazione Centrale di Milano e, la più importante in Europa, due anni fa, al Museo Luzzati di Genova) e i complici di lapis, da Crepax ad Altan, da Pratt a Bonvi. Quali sente ancora a lei più vicini ? «Jacovitti e Osvaldo Cavandoli, il papà di Mister Linea». Sono due radiografie della sua comicità: le Babeli grafiche, gli ingorghi comici di nasi, cappelli, gomiti, calzini nelle tavole di Jacovitti e l’omino di Cavandoli, quello della Lagostina, smarrito nel vuoto, farfugliante nello spazio circense d’un filo sospeso, suo cammino e suo destino: «Sì, due artisti che hanno influenzato molto il mio lavoro. E due grandi amici: che purtroppo non posso più incontrare. Per questo vado sempre meno ai raduni mondiali del fumetto, dove una volta facevamo insieme bisboccia».
In ormai mezzo secolo di successi, omini e animali di Mordillo non hanno mai detto una parola: «Le mie vignette sono nate mute, perché non conoscevo la lingua dei Paesi in cui ho cominciato a disegnare per guadagnarmi da vivere, prima gli Stati Uniti, poi la Francia. Ho vissuto anche in Perù e in Spagna, prima di trasferirmi, diciassette anni fa, a Montecarlo: ma ormai la mia fauna aveva preso l’abitudine di esprimersi solo a mosse e sguardi. Ora però i miei personaggi diventeranno tondi palloncini e parleranno — in tedesco! — in un lungometraggio 3D che stanno realizzando da due anni in Germania». L’animazione è stata un colpo di fulmine, da bambino. «Sì, grazie a mia nonna, che mi ha portato al cinema a cinque anni a vedere Biancaneve e i sette nani, appena uscito nel 1937. È stata la mia scoperta dell’America. Da quel momento ho cominciato a scalpitare per i cartoon: il primo impiego fu alla Paramount, dove ho contribuito alla caratterizzazione di star a disegni animati come Braccio di ferro e la piccola Lulù». Il cinema è rimasto un amore parallelo al disegno. «Fellini, che ho avuto anche la fortuna di incontrare, una quarantina d’anni fa, a una mostra del grande Oski, è un mio idolo. Lui non mi conosceva e mi chiese l’ora. “Le nove meno venti” risposi, mordendomi subito la lingua. Per tutta la vita mi sono rimproverato per non aver detto “Otto e mezzo”».
In Mordillo palpita anche un altro grande schermo: il campo di calcio. È il sangue argentino? «Ho giocato a pallone fino a vent’anni, ogni giorno in strada, partite che duravano sei ore. Era la pelota, il calcio dei poveri, degli immigrati: in squadra, tanti ‘ tani, cioè napoletani, come noi chiamavamo gli italiani, anche quelli del nord. Maradona? Grandissimo giocatore. Ma si crede Dio. E io sono agnostico». Altro argentino in auge è Papa Francesco: «È la prima volta che un papa è più giovane di me — ride — Lo stimo molto. Una persona autentica, che, come già faceva in Argentina, si mette dalla parte dei più semplici. In questo, siamo simili. Ma lui è divenuto papa, io saltimbanco. Altra differenza: lui tiene per l’importante San Lorenzo, io per una squadretta da quattro soldi. Anche da tifoso mi sembrava di non potermi permettere di più. I miei erano immigrati dalla Spagna, mio padre dall’Estremadura, mia madre dalle Asturie. La casa dove abitavamo era la più misera del quartiere: continua a esserlo anche oggi. Mio padre era elettricista, una fortuna in quella situazione: non c’era nulla che funzionasse nel quartiere e lui veniva continuamente chiamato per le riparazioni. Sono stati per me anni felici. Ero lasciato libero di esprimermi, di coltivare i miei sogni: disegnare, fare il clown, far ridere gli altri. L’infanzia è l’unico vero lusso della mia vita». Ha sempre sentito l’umorismo come un obbligo, una necessità? «Sono lentissimo nel disegno, come l’amico Quino. Entrambi non abbiamo la facilità del tratto, ma siamo animati da pari passione. Per completare una tavola mi occorrono ormai due o tre settimane. Dal primo scarabocchio (a due anni) a oggi non avrò prodotto più di duemila disegni. Ma continua a essere una spinta quotidiana: l’utopia permanente d’un mondo felice. L’umorismo è la tenerezza della paura: un modo di esorcizzare drammi, inquietudini, angosce. In un mondo felice l’umorismo non è necessario. Ma finché renderemo il pianeta imperfetto, la risata ci salverà».
Mario Serenellini, la Repubblica 18/5/2014