Carlo Verdelli, la Repubblica 18/5/2014, 18 maggio 2014
MILANO LA CITTÀ VERTICALE
MILANO
MILANO si è messa il gel, ma se qualcuno pensa che c’entri l’Expo sbaglia di grosso: quando l’ex sindaco Moratti se l’è aggiudicato (e mal ce ne incolse, viste le mazzette e i ritardi a meno di un anno dal via), la cresta della metropoli già lievitava, e ancora s’impenna. Te ne accorgi al volo mentre atterri a Linate o scendi dal treno alla stazione Centrale e prendi per viale Liberazione. Il cambio di scena, lì come altrove, è impetuoso. Sulla destra, tutto come prima. A sinistra, una vertigine. Sul terrapieno che ospitava un triste lunapark, straripa il Diamantone, una follia sfaccettata in vetro e acciaio di 137 metri, seguita da due diamantini e poi dalla Torre Solaria, 140 metri, dove pare abbiano già trovato alloggio Belen e Maria De Filippi (a far loro compagnia, Mario Balotelli, ma lui sta nelle villette rinate sulle ceneri della sede storica della Gazzetta dello sport , in via Galilei). Sullo sfondo, il Bosco verticale di Stefano Boeri, con mille tipi di alberi arrampicati su due torri di 24 e 17 piani. Passi un ponte e ti ritrovi in piazza Gae Aulenti, davanti alla stazione Garibaldi: è rialzata, si accede per scale mobili, è dominata dall’ottavo grattacielo più bello del mondo, che sembra lo specchio deformato di una regina dei titani, circondato da due torri-ancelle (i comodini della regina?) e in mezzo un baracchino vecchio stile con sei calciobalilla, più uno da Guinness con 22 manopole per parte.
Nella vertiginosa Porta Nuova-ex Varesine, ogni cosa è naturalmente a bassissimo impatto ambientale e altissimo profilo. Garantisce Manfredi Catella, splendido splendente quarantenne livornese, che prima favorisce l’incontro tra il colosso immobiliare americano Hines e l’allora piccolo marcantonio siculo lombardo Salvatore Ligresti e poi, fallito quest’ultimo, lo sostituisce con un fondo del Quatar. “Eccellenza italiana più innovazione internazionale”. Più o meno la stessa filosofia dell’altro polo che sta reinventando Milano, ovvero CityLife, assicurato dall’impegno delle Generali col sostegno di Allianz. La zona è quella dell’ex Fiera campionaria, il progetto è da due miliardi e 200 milioni di euro: tre grattacieli, di cui uno, la Torre Isozaki che toccherà il record dei 204 metri (più 40 di antenna per la Rai), un parco che diventerà il terzo polmone verde della città e altre annunciate meraviglie urbanistiche. Tra i vantaggi accessori di questa metamorfosi meneghina, c’è che se perdi l’orientamento in una delle zone della cintura, ti basta guardare in su e trovi subito una guglia o una torre a guidarti verso la salvezza. La metropoli del terziario avanzato sta diventando la culla italiana del terziario allungato verso l’alto. Non poteva che succedere qui. Milano è da sola il 10% del Pil nazionale, il suo sistema copre ancora, nonostante la grandine perdurante della crisi, il 20% dell’import-export. Capitale morale? Lasciamo perdere. Ma capitale all’europea, questo sì. E adesso, quasi all’improvviso, lo si vede a occhio. È come se in città fossero arrivate le montagne. Sono prevalentemente di vetro, dalle forme più incongrue, con una o più ali attaccate alle spalle o allo sterno, o lisce e dritte come lastre di ghiaccio.
Ai loro piedi, oltre a palazzine disegnate a forma di nave (progetto di Zaha Hadid) o concepite come uno spartito musicale (Daniel Libeskind), un fiorire di giardini e piste ciclabili, parte in essere, parte in divenire, e comunque a ingresso libero. Edilizia super residenziale ma senza zone riservate ai beati pochi, o tanti, come spera chi sta costruendo. Non a tutti piace, a qualcuno dispiace moltissimo. L’architetto svizzero Mario Botta, che già ristrutturò la Scala, ad Arcipelagomilano.org parla di «scenario da cartolina turistica, che trova la sua ragion d’essere negli emirati arabi, dove appunto non vi era la città». Ancora più scontento, il premio Nobel e milanese d’adozione Dario Fo: «Oscene quelle torri a grappolo, che se hai la sfortuna di abitarci intorno il sole lo vedi a orari fissi. Milano era città d’acqua, con due canali e sette fiumi: hanno interrato tutto, prosciugato l’anima di una comunità. Il semplicismo degli imbecilli, unito alla voglia di razzìa di potentati stranieri che ricordano i Lanzichenecchi».
Il primo cittadino Giuliano Pisapia, milanese da 65 anni (tra due giorni), vede tutto un altro film: «Ho sempre pensato che Milano fosse una città brutta con un’infinità di posti belli, spesso nascosti. Adesso è come una primavera, la bellezza si crea e si diffonde. Ho incontrato uno dei tanti milanesi che si erano trasferiti altrove in cerca di verde.
“Sindaco, ma è diventata splendida!”, mi ha detto quasi incredulo. Questa mutazione in corso mi affascina. Anche perché è una mutazione, diciamo così, governata. Come Giunta, abbiamo imposto a chi costruiva servizi per i cittadini, verde che fosse pubblico, rispetto e integrazione con quel che si trovavano intorno».
Milano è sempre stata una città bassa, con qualche appuntita eccezione. La Madonnina, “che te brilet de luntan”, sopra tutto e tutti: con i suoi 108,50 metri, ha dominato dal 1774 il Duomo e il resto, ha resistito agli assalti della Torre Branca e della Torre Velasca, per capitolare solo nel 1958 di fronte all’ardire laico del Pirellone di Giò Ponti, 127 metri, “la fiaba verticale” secondo Luciano Bianciardi. Finale della fiaba: fino all’altro ieri, 2005, i grattacieli a Milano erano cinque; adesso sono venti, più altri quattro in costruzione. Sulla palma del più alto si discute: l’Unicredit Tower (di mastro Cesar Pelli, argentinoamericano di origini italiane) dichiara 231 metri, ma 85 sono di guglia, quindi al tetto sarebbero 146, mentre la futuribile sede della Regione Lombardia (del cinoamericano Ieoh Ming Pei, lo stesso del Jfk di New York) tocca i 161 metri senza aiutini. Si riconosce, tra l’altro, perché ha una scritta “Expo” stile Broadway in cima a una facciata (sui marciapiedi, per “lombardizzare” un po’ il complesso, visto che il capo è il leghista Roberto Maroni, rocce dell’Adamello, granito verde dello Spluga, dorato della Valmalenco).
Immaginate un grande cantiere, anzi due, l’uno indipendente dall’altro. Alla periferia nord, verso Rho e Pero, ruspe e gru s’affannano a preparare l’Esposizione Universale di maggio, con l’angoscia che risucceda quel che capitò a inizio del secolo scorso, quando l’Italia perse il treno e l’Expo cominciò, invece che nell’annunciato 1905, l’anno successivo. Era dedicata ai trasporti. Quella del 2015 al cibo (e c’è chi ha cominciato a mangiarci sopra per tempo). Spérem.
L’altro cantiere riunisce gli imprenditori privati che stanno mettendo il gel sulla testa di Milano, dal Portello a Porta Nuova, da Santa Giulia a Porta Vittoria, a prescindere dall’Expo e molto prima dell’Expo. Una Milano bis da 50 mila posti extra, tra casa e uffici, con prezzi al metro quadro tra i sei e gli undici mila euro, che ha cominciato a prender corpo all’inizio degli anni Duemila sulla scorta di dati sballati (forte aumento della popolazione residente, che non c’è stato; forte sottovalutazione della crisi che s’annunciava, che invece c’è stata eccome) e che adesso si trova alle prese col problema dell’assorbimento degli spazi: le stime, a oggi, parlano di un 40% di venduto complessivo, che non è male ma non basta. Spérem.
«Negli ultimi cinque anni, Milano è cambiata più che nei 60 precedenti». Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, ricorda bene come tutto è cominciato. Da un lato c’erano gli edificatori (i vari Ligresti, Zunino, Coppola, Statuto), dall’altro un combinato Comune-Regione (Albertini-Formigoni) che certo non li sfavoriva. «Ognuno è partito a costruire con un’idea sua, cercandosi l’architetto più figo, tutto in eccezione, in variante, come si dice. Il nostro lavoro è stato quello di dare regole certe alle tante isole che spuntavano, di renderle più milanesi per tutti i milanesi. Mi pare stia funzionando».
Il punto più alto per osservare la lievitazione è il 43esimo piano della Torre Isozaki, 168 metri e sopra il cielo. Ci si arriva con stivali e caschetto, salendo scale appena abbozzate (l’ascensore si ferma al 35esimo). Per mettere in piedi un affare così, ci vogliono 38 mesi e 200 persone. Consegna prevista, 50esimo piano, febbraio 2015. «Ne mancano pochi», dice fischiando l’operaio Salvatore. Quando i pochi verranno ultimati, qui ci verrà Allianz. Sulla sinistra, le fondamenta della sinuosa Torre Hahid (170 metri), riservata alle Generali. Sulla destra, lo spazio per l’inarcata Torre Libeskind (165 metri), destinata a una marca del nuovo mondo, forse Samsung. «Il disegno è di creare una specie di cupola aperta e multietnica», spiega lievemente affaticato dall’ascesa Marco Pogliani, voce di Citylife. «Non a caso abbiamo scelto come architetti un ebreo polacco, Daniel Libeskind, un’iraniana inglese islamica, Zaha Hadid, e un giapponese scintoista, Arata Isozaki, coordinati da Francesco Dal Co, italiano e cristiano». Ci affacciamo alla balaustra, il tramonto è pulito, qualcuno indica i nomi delle montagne, cominciando da ovest: Bisbino, Rosa, Gran Paradiso, Resegone, Grigne.
Milano è sdraiata sotto, la Madonnina un punticino quasi invisibile, la montagnetta di San Siro, nata brulla, è una gobba verde scura prima del grande spiazzo vuoto dell’Expo. Non fa freddo ma da quassù, nonostante i teloni di protezione, il vento si sente. «Eh sì, anche il gruista là fuori balla un po’», e indicandolo, Daniele Bonomi, 26 anni, responsabile sicurezza del cantiere, lo invita a smontare. Fine turno. Si torna giù, in un gruppo che ha l’aria di quelli che fecero l’impresa: la cosa più alta mai costruita in Italia. «Pensi che d’inverno », dice Daniele, «lavoriamo sopra la nebbia».
Carlo Verdelli, la Repubblica 18/5/2014