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 2014  maggio 18 Domenica calendario

“COME GOMORRA: IL MIGLIOR CINEMA OGGI SI FA IN TV”

[Intervista a Stefano Sollima] –

A volte spari per finta: “Qui sono bambino in Colombia, comparsa nel Corsaro nero girato da mio padre Sergio a Cartagena e miro alle noci di cocco”, a volte spari veri: “Stavo fotografando per le strade di Timisoara, la pallottola mi passò vicino e non me ne accorsi neanche. Venne correndo un soldato a chiedermi scusa. Doveva proteggere un albergo, aveva visto un’ombra di troppo e gli era partito un colpo nella mia direzione. Per fortuna era negato”.
Per affinare la mira e non diventare bersaglio dei rimpianti tardivi, Stefano Sollima ha studiato le traiettorie sulla sua pelle. Da ragazzo, tra misteri e illusioni, nello stesso collegio romano frequentato da Emanuela Orlandi e Pirandello: “Varcai il cancello del Convitto Nazionale a nove anni, quando morì mia madre Maria Pia. Ho avuto un’infanzia assurda, avventurosa, molto formativa”.
E nei primi inquietanti cortometraggi in cui i suoi personaggi, uomini soli e senza prospettiva, si autoflagellavano fino a sanguinare in stanze vuote dominate dal bianco e dal nero. A 48 anni, con gli occhi azzurri, la moto nell’angolo e un cognome che evoca crociati e sultani ottomani: “Solima era l’antico nome greco di Gerusalemme e papà vantava un’ascendenza persino con Solimano il Magnifico”, dopo aver messo in scena i disturbanti colori dell’iperreale in Romanzo Criminale e Acab, Sollima ha scelto ancora di non consolare. Nel suo Gomorra girato per Sky e Cattleya c’è il rosso delle faide in cui l’onore si lucida con il kalashnikov. Il nero del potere che per esistere deve sporcarsi, aprire una finestra sul porcile, non aver paura degli odori né della coscienza. Il grigio indistinto di chi muove i fili e da prestigiatore in doppiopetto, protetto dall’impersonalità dei grattacieli di Milano, trasforma fiumi di coca e affari criminali in bond finlandesi, conti in Svizzera, rispettabilità sociale. Per legare Stendhal al boss Pietro Savastano, Shakespeare alle vendette di Ciro l’immortale, la saga di Saviano ai panorami di Scampia o agitare paragoni con Coppola, Assayas e Scorsese, Sollima ha studiato per un anno luoghi e precedenti. Ha ascoltato voci, affrontato polemiche, resistito alla semplificazione e al moralismo. Il risultato, straordinario, è un film di dodici puntate (dietro la macchina da presa anche Claudio Cupellini e Francesca Comencini) venduto in 50 paesi (coproduce Fandango) e comprato per gli Stati Uniti da Harvey Weinstein. Un’inversione di tendenza e non un falso movimento animato da attori sconosciuti che parlano in dialetto: “Per trascinarti al cinema, convincerti a trovare parcheggio e metterti in fila sotto la pioggia, un film ha bisogno di una stella che ti chiami al sacrificio. Con la tv è diverso. È lei a venire da te. Ti entra in casa, la tv. In tutto il mondo è una meravigliosa occasione per sperimentare e scoprire talenti, mentre da noi, per pigrizia, sono chiamati a interpretarne le storie sempre gli stessi quattro nomi. Qui Sky e Cattleya mi hanno offerto il lusso di rischiare nella scelta e permesso di cercare a lungo. Come già in Romanzo Criminale, ho chiamato a recitare volti che rappresentassero una novità”.

Gomorra ha raddoppiato gli ascolti dei suoi “bravi ragazzi” della Banda. La Magliana è stata superata.
Volevo firmare un grande racconto che all’indagine sociologica e alla denuncia, l’alibi più equivoco delle narrazioni di stampo civile, anteponesse lo spettacolo. Gomorra è un film che descrive un mondo molto più complesso di Scampia, paradigmatico di un territorio estremamente più esteso, senza rinunciare alla fantasia, al sogno e agli strumenti del cinema. Non amo le narrazioni che si muovono su un’unica nota.
Perché?
Perché la vita non è sempre tragica, felice o scanzonata. Esistono le sfumature. Le sfaccettature. L’idea che ha animato la scrittura era non perderle, restituirle, proporle senza i filtri del moralismo o del giudizio aprioristico. Bises, Rampoldi e gli altri sceneggiatori in questo senso sono stati martellati. Spero abbiano perdonato.
Insieme alle lodi sono arrivate anche le polemiche. Qualcuno non si è riconosciuto, altri hanno lamentato stanchezza per un dipinto tetro, a tinte fosche.
Ho capito fin dall’inizio la genesi dell’obiezione, ma solo l’origine, non altro. Da quando è uscito il libro di Saviano e Matteo Garrone ha girato il suo film, Scampia è cambiata moltissimo. Sono nate associazioni che contrastano il fenomeno criminale, agglomerati di cittadini capaci di accendere con costanza e sofferenza un faro su una realtà difficilissima.
Anche in Gomorra, esattamente come in Romanzo Criminale, nonostante la narrazione raggelante, il linguaggio non rinuncia del tutto all’ironia.
L’ironia è uno degli sguardi possibili sul mondo, uno sguardo che amo e anche se il nucleo di Gomorra richiedeva maggiore sobrietà rispetto all’educazione criminale della Banda di Romanzo Criminale, non ho visto ragioni serie per privarmene tout court. Qualcuno sostiene che per arrivare a narrarne i tanti lati oscuri, la produzione che ha sempre negato l’addebito, abbia dovuto contrattare gli affitti di una specifica location direttamente con un boss locale.
Lo escludo e ogni chiarimento sul tema, che non mi appassiona, è stato già esaurientemente fornito dalla produzione e dalla stessa autorità giudiziaria. A me piacerebbe che sul nostro lavoro e su quello di chi ci ha preceduto, chi abita in quelle zone si ponesse una domanda non retorica. Gomorra è servito alla fine ad aiutare il nostro quartiere? Io credo di sì. Nel progetto, pur sforzandomi, non riesco a vedere nulla di male.
Per amore del paradosso?
Per amore della verità. In Gomorra abbiamo adottato un punto di vista intellettualmente onesto, ma un film rimane sempre un film. È complicato confonderlo anche solo lontanamente con la realtà. Il pubblico è più intelligente e sofisticato di quanto non si immagini e il problema della supposta emulazione del cattivo da parte dello spettatore o della pubblicità negativa alla patria e alla nazione è un tema, tutto italiano, di stampo quasi psicoanalitico.
Si spieghi.
È un cruccio ipocrita che tanto racconta su di noi, sulla nostra coscienza sporca e sulla atavica fatica che abbiamo ad autorappresentarci. Personalmente rifiuto di azzerare o spogliare la narrazione in nome del buon senso o della facciata da non sporcare. Faccio un altro mestiere e non ho mai sentito un ammiratore de I Guerrieri della notte di Walter Hill, 1979, e dico 1979, ipotizzare di rinunciare a un viaggio a New York perché certi angoli osservati dalla poltrona di una sala facevano paura. Trentacinque anni dopo il Bronx potrebbe essere una landa desolata popolata di assassini e pusher e invece è un quartiere quasi chic. La stessa Magliana della Banda raccontata in Romanzo criminale oggi è un normalissimo rione come un altro, neanche troppo distante dal centro.
Lei viene dalla periferia?
Neanche un po’. Sono cresciuto a Roma Nord, in un ambiente borghese, tra via Cortina D’Ampezzo, Ponte Milvio e i Parioli.
Suo padre, Sergio, il regista del Sandokan televisivo, girò tra i ’60 e i ’70 alcuni film feroci e memorabili.
Fin dai sei anni razzolavo sul set seguendone le orme. Viaggiando per mesi tra Malesia e India, circondato da cavalli di scena, maestri d’armi e grandi attori. A dodici anni già conoscevo la differenza che spesso sfugge anche ai critici attempati tra uno sceneggiatore e uno scenografo. A 13, osservando un western, ebbi l’illuminazione. Mi sembrò di capire il meccanismo del cinema. Misi insieme in un istante tutte le fasi del lavoro che avevo visto costruire da mio padre separatamente e decisi senza dubitare: “Ho i intuito i suoi segreti, voglio fare il regista”.
Ci è voluto tempo.
Non ho frequentato nessuna scuola di regia. Tutto quel che so l’ho imparato respirando le atmosfere del set tra una pausa e l’altra dal collegio. Ci finii quando morì improvvisamente mia madre, perché papà, un uomo adorabile che per me è stato contemporaneamente madre, nonna e zia, non era miliardario e doveva lavorare. Chiedergli di smettere era impossibile ed era ingiusto. Non ho mai preso l’ipotesi in considerazione. E anche oggi che ho due figli e che faccio più errori di quanti non ne abbiano fatti i miei, sono sicuro che abbia compiuto la scelta giusta.
In collegio ha sofferto?
Ho avuto le mie sofferenze e ho saltato a pie’ pari l’adolescenza. Avevo perso mia madre, uno choc, e invece di essere protetto dalle sicurezze dei miei coetanei in un’esistenza normale e senza preoccupazioni, dormivo in collegio quattro o cinque notti alla settimana. A 18 anni ero già vecchio. Ma dolori ed esperienze mi hanno permesso di venire su più in fretta e più forte. Ho incontrato la dinamica collettiva che regola un branco, mi ci sono dovuto confrontare. Crescere con i ragazzi della mia età e spostare il baricentro dalla famiglia agli amici dividendo le notti con loro, mi ha lasciato in eredità un gruppo di fratelli che ancora oggi è quello che frequento nella vita. Fuori dal set non incontro colleghi né omologhi. La presunta lobby del cinema non la conosco e non la conoscerò mai. Dopo un’intera giornata trascorsa a parlare di inquadrature e messa a fuoco, ho bisogno di altro.
La dinamica del gruppo maschile è una costante dei suoi film. Anche quella è un’eredità dell’epoca collegiale?
Sicuramente. L’idea di indagare i rapporti tra maschi declinati in chiave criminale viene da quel periodo. Ai quei tempi ero iscritto alla Fgci. Ponte Milvio all’epoca era rossa e mio padre, pur non avendo tessere di sorta, era di sinistra. Mi riconoscevo anch’io in quella cultura di base, andavo alle Feste dell’Unità e ascoltavo non senza turbamento e fascinazione i racconti dei miei zii triestini che programmavano le vacanze estive in Unione Sovietica. A quell’età sei naturalmente predisposto all’utopia. Sul muro della mia camera al Convitto Nazionale avevo appeso due manifesti. Un’effigie di Che Guevara e il poster di un film di George Romero. I miei universi di riferimento. Oggi la politica purtroppo mi interessa molto meno, ma alle manifestazioni, allo stare insieme in gruppo e al collegio, una seconda famiglia, in questo senso devo molto.
E a chi altro deve qualcosa?
Al mio amico Dario. Avevo diciott’anni e lavoravo da cameriere in un bar di Piazza Navona. Un giorno passa a trovarmi: “Devo seguire la sfilata del 2 giugno, vuoi accompagnarmi come fonico?”. Dubito: “Non ne capisco un cazzo” e lui, pronto: “Ce la puoi fare, te la caverai”. Me la cavai e mi richiamarono. Iniziò tutto così.
Ricorda qualche porta sbattuta in faccia?
Tendo a dimenticare, forse è accaduto e se è successo, probabilmente era colpa mia. Dovevo aver proposto qualche illeggibile stronzata. Uno dei misunderstanding più banali dei vent’anni è considerarsi a torto un genio. Quando capisci che non lo sei, le cose vanno meglio.
Lo tiene sempre a mente?
Quando giravo la seconda serie di Romanzo criminale sul monitor avevo incollato due locandine. Da un lato c’era un film di serie Z, dall’altro il poster di quel capolavoro di Jacques Audiard che si intitola Il profeta. Quando vedevo qualcuno sovreccitato che urlava in anticipo al capolavoro, gli mostravo il film francese e lo invitavo ad abbassare la cresta. Quando ascoltavo qualcuno lamentarsi per l’eccessivo impegno, gli ricordavo che avrebbe potuto tranquillamente ritrovarsi a lavorare in un filmaccio. Niente è dovuto e le parabole sono più casuali di quel che si pensi. Trovarsi da un lato o dall’altro della barricata è una questione di fortuna. Di dettagli.
A proposito di filo spinato, lei ha lavorato in zone ostili per molti network internazionali.
Mi unii a un’agenzia che vendeva news a canali internazionali come Nbc e Cnn utilizzando la piattaforma Ntsc. L’agenzia in breve tempo si allargò a dismisura sul mercato nippo-americano e conquistai subito l’indipendenza economica. Seguii la prima guerra del golfo a Gerusalemme, sotto i bombardamenti. Giravo il mondo e con le indennità professionali guadagnavo molto. Non ho mai fatto un raffronto con quello che incasso oggi, ma potrei anche sorprendermi negativamente.
Con “Sotto le unghie”, nel ’93, venne invitato a Cannes dalla Semaine de la Critique.
Era la storia di un ragazzo che si sveglia nel suo letto, non riesce a trattenere il prurito e si gratta fino a scarnificarsi. Il primo corto, Grazie, invece lo girai tre anni prima con due pizze da undici minuti, mezza lira e un suono improponibile. C’è una ragazza che ha perso i soldi del suo fidanzato. Lui la rimprovera, lei decide di fare una rapina in un supermercato per ridargli il denaro e toglierselo dalle palle.
Oggi i ragazzi che escono dal Centro Sperimentale sperimentano davvero?
È raro ed è un problema culturale. Se deve scegliere tra il racconto di un supereroe in volo sui tetti o la crisi adolescenziale di un diciassettenne, il diplomato opta sempre per la seconda ipotesi. Si sente quasi costretto a farlo e non solo per mancanza di mezzi, perché se realizzare un Batman richiede investimenti enormi, Saw, un successo mondiale, è stato praticamente scritto e recitato in una sola stanza.
Da cosa dipende?
Da una mancanza di ambizione e di coraggio unita a una sufficienza di fondo che è profondamente connaturata al sistema. C’è l’abitudine di considerare gli italiani come i fratelli scemi e mal cresciuti del cinema mondiale. Così gli si dà un buffetto. Gli si fa un applauso aprioristico. Si elargisce un’indulgenza eccessiva che somiglia al complimento fatto a un bambino che con la matita ha appena disegnato uno sgorbio. Lo si festeggia. Lo si educa al brutto. Gli si dice “Ma è bellissimo” e intanto si pensa: “Non è granché, è vero, ma si è impegnato e non merita rimproveri”. Il nostro riferimento, il nostro campionato, dovrebbe essere quello in cui giocano tutti gli altri. Ma qualcosa per fortuna sta mutando. Oggi nell’industria cinematografica e televisiva non possiamo più prescindere dal rapporto con il resto del mondo, né ignorare quel che accade intorno a noi. L’autarchia, grazie a dio, è finita. E magari, non sarebbe una novità, ci salveremo con un classico colpo di reni all’italiana.
Il confronto a testa alta tra il nostro cinema e quello del resto del mondo c’è stato per decenni.
E ancora accade, sia per il cinema d’autore che viene reinterpretato da un Sorrentino in una chiave del tutto originale e non scimmiottando i maestri come pure è stato detto, sia per l’intrattenimento. Sfortunatamente, in una pulsione al suicidio di cui non si comprendono i nessi, il cinema di genere è stato ucciso. “È morto” hanno detto in tanti, ma la realtà è che lo facevano male. Non si capisce altrimenti come ovunque, dalla Francia all’America, sia vivo e vegeto. Da noi è rimasta la commedia, ma io con una certa commedia all’italiana che non ha niente a che vedere con Risi e Monicelli o con quei geni di Age Scarpelli, ho litigato fin da piccolo.
Zalone ha incassato più di 50 milioni di euro. Le piace?
È molto intelligente, interessante, arguto. Non so se durerà, ma quando parlo di un modello stanco sicuramente non mi riferisco a lui.
Ora, rapiti da Gomorra, la chiamano anche dall’America. Progetti?
Presto girerò per Cattleya Suburra tratto dal libro di Bonini e De Cataldo e intanto sono al terzo viaggio statunitense da dicembre. Più che lavorare negli Usa, mi piacerebbe coinvolgere gli americani nella nostra produzione. Aprirsi al mercato internazionale non significa necessariamente trasferirsi. Vivere a Roma non è una passeggiata, ma qui sono nato e per adesso, felice, qui rimango.

Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 18/5/2014