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 2014  maggio 16 Venerdì calendario

TRA I PANNI SPORCHI DEL BANGLADESH


Dacca. La stanza dalle pareti di latta è in penombra. Sul letto matrimoniale, sormontato da un’imponente testata di metallo, è accasciata una ragazza. Sopra una blusa rossa a fiori bianchi porta uno scialle grigio. Considerato che fuori sono quarantatré gradi e dentro, se possibile, qualcuno di più, quest’ultimo dettaglio sembra il più assurdo. Di tutto c’è bisogno, in questa baracca arroventata di Savar, nella periferia industriale di Dacca, meno che di coprirsi. Apparentemente. Rozina Begum, ventitré anni all’epoca dei fatti, lavorava nell’edificio noto come Rana Plaza. Cuciva dalle otto di mattina alle dieci di sera, a volte mezzanotte.
Un bel po’ di straordinari che, per gli standard locali, le fruttavano una piccola fortuna: 125 dollari. Ma che una volta spalmati si assottigliavano a una ventina di centesimi l’ora. La mattina del 24 aprile 2013, al momento del crollo in cui sono morte 1.129 persone e rimaste ferite 2.515, il pavimento le si è aperto sotto i piedi e il soffitto le si è richiuso addosso. Un braccio le è rimasto sotto un pilastro. Per due giorni i soccorritori, cercando di non far franare tutto, hanno provato a estrarla. Alla fine le hanno passato una sega: «Usala o morirai».
Ora lo scialle si alza un po’ e sbuca un moncone. Questa giovane donna ha lo sguardo di una centenaria rassegnata. Dice: «La mia vita è finita. I marchi per cui lavoravo pensino almeno a mia figlia e le paghino la scuola perché abbia un futuro diverso». Nel suo mestissimo appello cita Benetton, Manifattura Corona e Primark. Il gruppo irlandese è l’unico di cui ha avuto notizia.
Sul suo telefonino, attraverso il sistema di pagamenti telematici bKash, si è materializzato un bonifico da 410 euro. Poco, ma meglio di niente. Primark, con 8 milioni di dollari già stanziati, è anche il primo firmatario del Donor Trust Fund, l’impegno sottoscritto da una ventina di marchi internazionali, sotto la supervisione dell’International Labor Organization, a risarcire i sopravvissuti o i familiari degli scomparsi. Lista in cui spicca l’assenza delle tre ditte italiane che producevano nella palazzina implosa. Benetton ha preferito una via privata. Attraverso Brac, un’importante ong locale, aiuterà 350 feriti a curarsi e reinserirsi nella vita lavorativa. Anche la padovana Manifattura Corona dà soldi al Crp di Savar, un centro di riabilitazione, per aiutare 102 persone con lesioni al midollo. Né l’una né l’altra dichiarano quanto hanno versato. Ma la multinazionale di Ponzano Veneto rivendica che, se gli stessi soldi li avesse messi nel Fund, si piazzerebbe al terzo posto tra i più generosi. La bergamasca Yes Zee-Essenza aveva offerto di contribuire al fondo con 2.500 euro («Ma non ho i soldi per far fronte ai requisiti di sicurezza richiesti» giura Tiziano Verzeroli). Deborah Lucchetti, presidente della campagna Abiti Puliti, contesta questi approcci: «C’è una differenza profonda tra risarcimenti e carità. Il primo è un diritto dei lavoratori, riconosciuto da convenzioni. Prevede dei calcoli che moltiplicano il mancato reddito per l’aspettativa di vita della vittima. La cifra che ne risulta è oggettiva. L’opposto della vaghezza arbitraria della beneficenza delle nostre ditte».
Al telefono Maria Francesca Berto, titolare della Manifattura Corona, menziona la «sua coscienza cristiana» come molla che l’ha spinta a «sponsorizzare» l’assistenza ai feriti. In Bangladesh la sua società opera con il Pontificio istituto missioni estere, che insegna a ragazze di campagna a lavorare in fabbrica. Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te (Matteo 6, 1-4). La carità, come virtù teologale, rifugge la pubblicità. I risarcimenti, come restituzione di una perdita economica, la pretendono. Il dio che invoca Benetton è quello dell’efficienza: «Quando ci siamo resi conto che i tempi si dilatavano e si stava arrivando a prevedere una contribuzione su base volontaria e non proporzionata all’effettiva presenza in Bangladesh» ha dichiarato l’amministratore delegato Biagio Chiarolanza «abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi sul programma Brac». Democrazia, com’è noto, non è sinonimo di velocità. Ma tendenzialmente garantisce il maggior numero di interessi. E poi c’è la smentita vivente di Primark che ha firmato e i suoi soldi sono già arrivati nelle tasche di chi ne aveva bisogno. Fatema Akter e la sua gamba rovinata o Halima Akter che non riesce più a dormire o le madri di Rana Plaza nell’anniversario del disastro non hanno incrociato la filantropia privata dei gruppi italiani. Sarà anche un campione statisticamente non significativo, ma pur sempre un mucchio di persone senza più una gamba, una figlia, una sorella. Che meritano un risarcimento pieno, non discrezionale e trasparente. Dacca è il caos fatto città. Quindici milioni di abitanti, molti dei quali arrivati dalle campagne per lavorare nel tessile, producono innanzitutto un traffico disumano. Per andare da un quartiere all’altro, otto chilometri per Google Maps percorribili in 25 minuti, ci possono volere due ore. Fili elettrici ad altezza uomo. Fogne a cielo aperto. Crateri nelle strade che i tuk-tuk schivano miracolosamente. Il pronto moda vale circa un terzo del Pil. Impiega quattro milioni di persone, per l’ottanta per cento donne, ma tra familiari e indotto ne riguarda sei volte tante. Il Bangladesh è una superpotenza dell’abbigliamento, secondo solo alla Cina, dove però i salari sono aumentati più volte. «Una circostanza che ci avvantaggia» constata, nel bar dell’hotel Westin, il presidente della Viyellatex David Hasanat: «La Turchia ha le competenze, ma è meno competitiva. La Cambogia ha prezzi bassi, ma difetta di competenze. Noi abbiamo entrambe le cose». Quando, anni fa, un buyer pretendeva condizioni inaccettabili, smise di collaborare («Nessun mio cliente vale più di un quinto del fatturato. Solo così sei libero di dire no»). Oggi lavora per Calvin Klein, Puma, Hugo Boss. La sua fetta, sul totale di un capo, è maggiore della media dei colleghi che non trattano con i designer: «Fino al 5 per cento, contro un 2 medio, che può arrivare a zero, pur di non lasciare le macchine ferme». È una matematica semplice per Rubana Huq, a capo del Mohammadi Group, felice di produrre per H&M: «Io non mi lamento. Ma se per una camicia da 6,75 dollari, 4,75 vanno per la stoffa, 1 per etichette e altri accessori richiesti dal committente, resta un dollaro per salari e profitto. E la sicurezza? Vi sembra sostenibile?». Una singola domanda mi ha portato qui: cos’è cambiato a un anno dal Rana Plaza? «I salari minimi sono cresciuti, passati da 38 a 69 dollari al mese» mi dice Roy Chandra, segretario dell’Industriall Bangladesh Council. «Che però non bastano per una vita dignitosa e a evitare omicidi industriali come quello dell’anno scorso. Perché un incidente è imprevedibile, mentre lì il giorno prima avevano visto crepe nei pilastri. Salvo poi ricattare i lavoratori per entrare e rispettare le consegne». Ha fatto i conti: «Basterebbero dieci centesimi di dollaro a pezzo per avere fabbriche sicure. Lo scriva. Sono sicuro che Papa Francesco potrebbe far sua questa battaglia». Shahidul Islam Shahid, vice-presidente della National Garment Workers Federation, cita un altro miglioramento: «È stata modificata una legge e sono stati creati 141 nuovi sindacati. Però il tasso di iscrizione resta inferiore all’1 per cento». Un deserto di tutele che è l’Eden di imprenditori sbrigativi. Un’altra novità è che Sohel Rana, il padrone dell’edificio nonché politico del partito al governo, è in galera e con lui i manager delle fabbriche. «Anche il Donor Trust, con Nazioni Unite, sindacati e governo allo stesso tavolo, è un fatto inedito» prosegue Shahid, «per questo sconcerta che Benetton non ne faccia parte. Affidarsi a Brac, con i suoi costi gestionali, è antieconomico: di 100 dollari donati, 20 finiranno ai beneficiari». A occhio è una stima pessimista. Agli antipodi di quella rosea dell’azienda («Riceveranno tra 92 e 96 centesimi»). L’altro cambiamento me lo spiega l’americano Rob Wayss. È il capo dell’Accord che ha messo insieme 166 marchi, da Adidas a Zara, passando stavolta anche per Benetton, Chicco, Prenatal e tanti grossi nomi della moda globale. «I firmatari si impegnano a far verificare le fabbriche da ingegneri indipendenti. Che poi produrranno report pubblici e controlleranno che gli interventi si facciano. A spese dei sottoscrittori». A oggi, su 1.625 fabbriche individuate (su un totale di circa 5.000 censite nel Paese), ne hanno visitate 300. È un inizio importante, la cui parola chiave è «indipendente». Perché, pochi mesi prima della tragedia, il certificatore tedesco Tüv aveva licenziato un rapporto sulle condizioni della Phantom, poi crollata, prescrivendo «miglioramenti» ma definendo l’edificio come «di buona qualità». Basti ricordare che sui quattro piani originari ne erano stati aggiunti altrettanti e avevano poi sistemato i generatori di corrente, con le loro spaventose vibrazioni, sull’ultimo. Nessuno le ha chiesto i danni. Anzi, evidentemente ignara, Benetton l’ha scelta per verificare le 20 fabbriche che nel Paese lavorano per lei. Per l’anniversario del crollo centinaia di persone si sono ritrovate a Savar. Il grande vuoto che una volta era il Rana Plaza è recintato sul davanti, ma è facile entrare da dietro. Resta ancora un piano di detriti, un minestrone di mattoni, cemento e stracci colorati. Trovi pantaloni della canadese Joe Fresh, maglioni di The Children’s Place. A sorpresa spunta il sotto di una tuta con il logo di un uomo e una donna seduti di spalle. Continuando a rovistare dalle macerie esce un altro pantalone, un giubbino, sacchetti di plastica marchiati Robe di Kappa e rotoli di etichette. Anche il gruppo torinese produceva qui ed è stato zitto tutto questo tempo? A domanda, l’azienda risponde di no. Allora spedisco le foto dei ritrovamenti e suggerisco un supplemento d’indagine. Dopo due giorni la risposta è che «il materiale rinvenuto è un residuo di un test order destinato a una delle società licenziatarie del Gruppo. La lavorazione presso la fabbrica Phantom Apparels risale a un periodo molto limitato, tra dicembre 2012 e gennaio 2013. Gli avvenimenti di aprile 2013 giungono pertanto in un momento in cui la collaborazione era stata già interrotta». Però non forniscono pezze di appoggio. Tra quelle stesse macerie il mio interprete aveva recuperato un tesoro di fogli contabili. La somma di ordini riferibili a Benetton, che sino alla pubblicazione di foto di sue magliette tra i calcinacci aveva negato ogni coinvolgimento, dà un totale di oltre 160 mila pezzi. L’azienda di Ponzano Veneto, nell’argomentare sulla mancata firma del Fund, ha dichiarato «ordini occasionali» a Rana Plaza, lo 0,06 per cento di una produzione mondiale da 110 milioni di capi. Dunque 60 mila capi, mentre solo noi ne abbiamo trovati per quasi tre volte tanto. «Molti di quegli ordini possono essere stati cancellati.
Confermiamo la nostra stima» insiste l’azienda. Ancora una volta senza carte. E siamo chiamati a un atto di fede. Alla commemorazione, tra familiari e attivisti, c’è anche Kalpona Akter, ex operaia finita in carcere per attività sindacale: «Qualcuno ritiene che una presenza limitata dia una licenza di uccidere? Vergogna, chi non l’ha fatto paghi per chi ha perso la vita lavorando per loro». In molti mi hanno detto: «Il consumatore ha il potere di cambiare le cose, comprando le merci di chi produce eticamente». Chissà. Ma uno studio del 2006 dell’American Sociological Association dimostra che, a parità di prezzo, solo metà dei clienti opta per i calzini con l’etichetta «prodotto etico». Che diventano un quarto se i buoni costano 3 dollari anziché 2. In Supercapitalismo Robert Reich spiegava che, se da cittadini apprezziamo i diritti, da consumatori ci importa solo del prezzo. Ci rifletto mentre rientro in albergo in risciò. Prendere o meno un mezzo a trazione umana è di per sé un rovello morale. La reazione naturale è «neanche per idea», ma qui li usano tutti e per chi li guida fa la differenza tra la fame e un piatto pieno. Mi torna in mente quando un’attivista se la prende con chi delocalizza: «Non serviva Rana Plaza per sapere in che condizioni producono. È la sagra dell’ipocrisia». Ha ragione. Sanno tutto, compreso che se il tuo fornitore ha una capacità produttiva di cento e gli chiedi mille è evidente che si rivolgerà a subfornitori. Ma se i brand se ne andassero il Paese ripiomberebbe indietro di un’èra. Non sarebbe più sensato restare e ridistribuire i profitti? Se ha ragione Hasanat quando calcola che a intermediari, marchi e dettaglianti vanno oltre due terzi del totale, dove tagliereste voi? Un vigile ferma il risciò. Per motivi che non capisco non può passare di lì. Segue dibattito che si sblocca con un furtivo passaggio di banconote. Ci sono le regole, e poi la realtà. Perciò un risarcimento controllato da tanti occhi, inclusi quelli di uno stimato organismo internazionale, sembra la soluzione più giusta. Perciò Human Rights Watch, i media locali e internazionali, i sopravvissuti e gli attivisti, continuano a non capire chi ha imboccato strade alternative. Più brevi, forse, ma assai peggio illuminate.

Riccardo Staglianò, il Venerdì 16/5/2014