Simonetta Fiori, il Venerdì 16/5/2014, 16 maggio 2014
STORIE DI CASA BERLINGUER
[Intervista alla figlia Bianca] –
Roma. «Il timone lo teneva sempre lui, nel mare di Stintino. E usciva tanto più volentieri se il maestrale era forte, le vele gonfie di vento, quando tutti gli altri gozzi rimanevano a riva.
Perché nel mare cercava la libertà e nel vento la sfida». Il Berlinguer privato, il padre accudente e il marito innamorato, l’ironia e il gioco, le stravaganze e le passioni insolite. È la prima volta che la figlia Bianca apre la porta di «casa Berlinguer», anche se non è facile parlare in pubblico di un uomo che fece della riservatezza uno stile di vita. «Ma è chiaro che questa è un’eccezione?». Lo stesso sorriso, gli stessi occhi lievemente ripiegati all’ingiù, lo stesso movimento circolare del volto che faceva il padre nei momenti di tensione.
Un sabato mattina con Bianca, in un via vai di affetti privati — il marito Luigi Manconi, la loro figlia Giulia — e le telefonate del Tg3, di cui è direttrice. Partiamo dalla somiglianza fisica.
Come la vivi?
«Ho cominciato ad avvertirla dopo la sua morte. Poi è stata la televisione a restituirmi questa somiglianza, fin dal mio esordio in studio. Per la prima volta me lo disse anche mamma: “certo, in tv eri identica a tuo padre”».
Caratterialmente gli somigli?
«Forse la sua stessa cocciutaggine, una qualche spigolosità e quello stile famigliare di riservatezza. Dei quattro figli chi lo ricorda di più però è Marco, più introverso di noi».
Ma tuo padre era riservato anche con i figli o mostrava un’affettuosità anche fisica?
«Papà è stato anche un padre “fisico”, soprattutto quando non c’era mia madre. Avevo due anni quando nacque Maria e andammo con lui in Sardegna per quindici giorni. Io ricordo poco, ma le zie mi raccontavano che gli stavo appiccicata come una tellina. E lui era molto sollecito, mi lavava, mi cambiava, mi preparava da mangiare. La stessa cosa si sarebbe ripetuta con la nascita di Laura. Avevo dieci anni, Maria otto e Marco sette e ci immergemmo nell’anarchia di Stintino. Però papà era attentissimo a certe regole: cambio di costume dopo il bagno, mai mangiare prima della nuotata. E poi la scuola del gozzo».
In che consisteva?
«Si usciva con le barche a vela latina dei pescatori, e ogni fascia d’età aveva il suo gozzo. I grandi uscivano con i grandi, e i bambini tra i dodici e i tredici anni con i loro coetanei. Prima ti insegnavano a manovrare le vele, a tenere il timone, a sentire il vento. Io l’ho imparato da mio padre».
Quella del mare è anche scuola di vita.
«Chissà. Il mare gli piaceva tantissimo, soprattutto quando batteva forte il maestrale. Era una sua caratteristica: quando saliva il vento, lui usciva. Soprattutto il pomeriggio, con Paolo, il cugino molto amato».
Ma vi caricava a bordo con sé?
«No, finché eravamo piccoli mamma glielo ha impedito. “Non t’azzardare a portarli con te...”. Due o tre volte ha rischiato di brutto. Ricordo ancora un episodio drammatico, un cielo nero di tempesta, e noi a casa ad aspettarli. Mamma telefonò a zio Aldo Berlinguer, il padre di Paolo, chiedendogli se non era il caso di mandare i soccorsi. “Ma prima che qualcuno si muova… dai, ce la faranno da soli”. Tornarono a tarda sera con le vele strappate».
Il mare come un grande amore.
«Sì, arrivò al punto di dire che, se avesse potuto scegliere come morire, avrebbe preferito in mare. E mia madre scherzando chiosava: e infatti ci hai provato più volte. Il mare rappresentava soprattutto la libertà. Quando era segretario, la barca era l’unico posto dove non aveva la scorta. E la sua era una vita blindata».
Non si ribellava mai?
«Una volta venne con me in motorino. Avrò avuto sedici anni, tempi già pericolosi, alla metà degli anni Settanta. Arrivai prima del previsto a casa e lo trovai solo e senza scorta. “Ha chiamato il preside per i tuoi fratelli, bisogna che qualcuno vada”. Ma come, in motorino? Avevo un sellino piccolissimo e cominciò tra noi una specie di colluttazione per trovare una sistemazione. In precario equilibrio arrivammo a scuola e dopo poco di nuovo a casa. Dove trovammo una folla di compagni e poliziotti in allarme. Ma sei matto? In motorino con Bianca? Lui si fingeva costernato. In realtà era felice di essere fuggito per un’ora con me».
Dopo il sequestro e l’assassinio di Moro, le cose si fecero più complicate.
«Già prima del rapimento, sapevamo che mio padre era nel mirino delle Brigate Rosse. Certo fu quello il momento più drammatico della sua vita politica. Non solo si esauriva il progetto in cui aveva creduto, ma la linea della fermezza lo metteva di fronte a una scelta che lo tormentava anche umanamente. Una linea che difese con grande determinazione, nella convinzione che la trattativa avrebbe portato a un riconoscimento politico delle Br da parte dello Stato. Tant’è vero che un giorno ci chiamò da parte: se dovesse capitare a me di venire sequestrato, voglio che non ci sia alcun negoziato. Lo dico adesso da uomo libero: e qualunque cosa dovessi mai scrivere dalla “prigione del popolo”, vi chiedo di rispettare quello che dico in questo momento».
Cosa accadde a casa vostra quel 16 marzo del 1978?
«Papà arrivò a casa solo a tarda sera. Era molto provato, ma come sempre consapevole. Ci spiegò l’enormità di quanto stava accadendo, ma senza cedere all’emotività né tantomeno all’evocazione della minaccia di un colpo di Stato, come avevo sentito dire quella mattina a scuola. Furono giorni davvero drammatici. La scorta triplicò e anche per noi figli si pose il problema della sicurezza. Da allora i Natali si sarebbero festeggiati in casa nostra, non più da nonna Niki, la seconda moglie di suo padre».
Com’erano i loro rapporti?
«Lei è arrivata quando papà e il fratello Giovanni erano già grandi, dunque non ha avuto nessun ruolo materno nella loro vita. La loro mamma, nonna Maria, era già morta da tanti anni – papà era appena quattordicenne – ma l’encefalite letargica le aveva impedito di accudirli sin da piccolissimi. Di fatto sono cresciuti senza madre. Da qui il legame strettissimo tra loro e il padre Mario. L’unica volta che vidi piangere papà fu per la morte di nonno».
Avevano caratteri diversi.
«Sì, mio nonno era un avvocato molto estroverso, burlone, anche mondano, mentre mio padre era piuttosto restio ai rituali sociali. Certo è che la morte della madre l’aveva segnato profondamente».
Forse è stato così premuroso con voi anche perché a lui era mancata la madre.
«Forse. Quando Laura era piccola, papà aveva l’abitudine di tenerle la mano finché non si addormentava. Mia madre non approvava: quando lui non c’era, toccava a lei assolvere il ruolo di “reggitrice”. Così per anni avrebbe attribuito al vizio di papà il suo dolore alla spalla».
C’è un bellissimo ritratto di tua madre nel diario di zia Ines Siglienti. «Letizia polemica,
com’era da bambina. Si diverte – e ci diverte – a contraddirci su tutto: Pertini, il papa, la Dc, la Malfa e perfino il Pci. È simpaticissima. Lei dice male se dici bene, bene se dici male. Ed Enrico, sorridendo dolcemente, cambia discorso».
«Questa è stata la saggezza dei miei genitori: il ruolo pubblico di papà rimaneva fuori di casa. E tra loro c’era la più grande parità. Mia madre non è mai stata comunista e ha sempre manifestato una totale indipendenza di giudizio. Per noi figlie femmine una lezione fondamentale. Ma di questa separazione tra vita politica e vita privata aveva bisogno anche mio padre. Il suo ruolo pubblico l’ha vissuto con dedizione massima, ma gli pesava. Era una persona riservata, a cui non piaceva esporsi. Oltre la soglia di casa riacquistava la sua libertà».
Era innamorato di tua madre?
«Sì, fu una unione molto profonda, che si nutriva della loro diversità. Lui introverso, mite, anche un po’ timido; mamma estroversa, esuberante, desiderosa di socialità. Hanno avuto una vita intesa, felice ma – come in tutti i rapporti di coppia – tormentata e attraversata da difficoltà. E più cresceva il ruolo pubblico di mio padre, più problemi nascevano».
S’erano conosciuti da ragazzi.
«Sì, a casa di zia Ines Berlinguer, forse la figura femminile che più ha contato nella formazione di mio padre. Mamma era molto amica di Lina, la figlia di Ines. Anche zia Ines era approdata a Roma con il marito Stefano Siglienti, un banchiere già ministro delle Finanze e direttore dell’Istituto mobiliare italiano. La loro casa di Grottaferrata era luogo di incontri anche politici, dove papà andava volentieri. La conoscenza con mamma avvenne da giovanissimi, anche se il rapporto sentimentale sarebbe nato più tardi».
Lei cattolica, lui no.
«Sì, un’altra delle differenze tra loro. Con l’accordo di mio padre, tutti noi abbiamo ricevuto un’educazione religiosa: prima il Battesimo poi la Comunione, mentre per la Cresima decisero entrambi che sarebbe stata, eventualmente, una nostra scelta da adulti».
Qualcuno ha scritto che con il proprio padre non si parla mai di Dio né di sesso.
«Di religione, sì, abbiamo parlato, di sesso molto meno. Ma i nostri fidanzati crescevano da noi, erano persone di famiglia. Se qualcuno non gli piaceva, si guardava bene dal dircelo. Ma traspariva con grande chiarezza».
C’è stato un momento in cui ti ha sorpreso?
«Verso i quattordici anni ebbi una classica crisi adolescenziale, quelle per cui ti chiedi il perché del tuo stare al mondo. Una sera, verso le dieci, si affacciò nella mia camera e mi raccontò come la vita potesse essere bella. Ma non riferendosi ai massimi sistemi, bensì alle piccole cose. Un albero che fiorisce, un tramonto fiammeggiante, la lettura di un libro. Lui che aveva dedicato tutto se stesso a cercare di trasformare la società, voleva trasmettermi il senso pieno dell’esistenza anche nelle pieghe della quotidianità».
Non era un padre ideologico.
«Al contrario. Gli hanno cucito addosso lo stereotipo dell’uomo triste e grigio, anche per attaccarlo politicamente. Ma non c’è niente di più falso. Amava l’arte e la musica, specie Wagner. Era un lettore onnivoro, I dialoghi di Platone il suo livre de chevet . Gli piaceva il calcio e quando poteva andava al cinema. All’occorrenza si improvvisava cuoco di pasta al burro e uova con la mozzarella. E non era privo di stravaganze».
Quali?
«Mi viene in mente quella volta che, prima del viaggio in Cina, uscì con Laura allora tredicenne per fare delle compere. Al rientro ci mostrò fiero i suoi acquisti: camicie di taglia microscopica, pantaloni di foggia improponibile. Ma la cosa che lo rendeva più orgoglioso era il grande affare: tre maglie a diecimila lire, in più la tessera omaggio del negozio. Lo guardammo allibiti, nessuno però osò rompere il suo incanto».
Quel viaggio in Cina, nell’83, fu più sereno del precedente in Unione Sovietica.
«Sì, il soggiorno a Jalta nel 1979 era stato pesante. I sovietici diffidavano di mio padre, e lui di loro. Ci avevano piazzato fisso a casa Smirnov, un russo che parlava bene l’italiano. Papà era convinto che fosse lì per spiarci. D’altra parte da anni i rapporti si erano deteriorati».
Ne parlavate a casa?
«Sì, certo. Credo che personalmente “lo strappo” l’avesse maturato da molto tempo, ma aspettò che tutto il partito lo seguisse. Capitava in famiglia di scherzarci su: soprattutto quando ci accorgemmo che a Natale, invece di ricevere i soliti due vasetti di caviale della migliore qualità, da Mosca cominciava ad arrivarci quello mediocre. E mia madre rideva: “Si vede proprio che siamo in disgrazia con l’Urss”. A Pechino invece l’atmosfera sarebbe stata più serena. Ma fu un viaggio molto stancante, così al rientro papà volle trascorrere qualche giorno a Stintino».
L’ultima estate insieme.
«Sì, furono vacanze bellissime, perché a fine agosto tutte le altre famiglie erano già partite e per la prima volta restammo solo tra noi. Mi ricordo lunghi pomeriggi in barca, con papà e mamma. Dopo la sua morte a Stintino non siamo più tornati, comunque non tutti insieme: troppo doloroso».
Quando hai capito chi era Enrico Berlinguer?
«Credo di averlo capito solo dopo la sua morte. Quando uscimmo dalla clinica, a Padova, per andare a Mestre, dove ci aspettava l’aereo di Sandro Pertini, fui travolta da una sensazione fortissima: chi lanciava un fiore, chi faceva il pugno, chi il segno della croce. Ognuno lo salutava alla sua maniera, in un crescendo di sentimento e dolore veri. Un affetto e rimpianto che avverto anche oggi, dopo trent’anni».
Vedendo le immagini dell’ultimo comizio, nel film di Walter Veltroni, in molti abbiamo pensato: forse si sarebbe potuto salvare.
«Me lo sono chiesta anche io tante volte, ma non so darmi una risposta. Quando arrivammo a Padova, la mattina dopo l’operazione chirurgica, mamma ci comunicò subito la verità: i medici hanno detto che vostro padre non ha alcuna possibilità di salvarsi. Un figlio desidera sempre che il padre sopravviva in qualunque modo. Ma se papà fosse rimasto in vita ferito nella sua dignità, sarebbe stato per lui uno strazio insopportabile».
Cosa ricordi di quei momenti?
«Durante l’agonia e dopo la sua morte, non ci lasciarono il tempo di restare soli con lui neanche un istante. La storia pubblica s’impadronì prepotentemente di quella privata. Oggi lo impedirei. Così come impedirei la passerella dei politici nella sala di rianimazione. Così pudico e riservato, mio padre non avrebbe mai voluto essere visto nel letto di morte da nessuno. Non solo da Bettino Craxi – cosa che fu impedita da mio fratello Marco, che in lacrime litigò con Giancarlo Pajetta – ma da qualunque altro estraneo».
Cosa non hai fatto in tempo a dirgli?
«Un’infinità di cose. Però cerco di non pensarci perché è un’idea che fa male».
C’è qualcosa che ti disturba delle tante cose dette e scritte in questi anni?
«Molti analisti – tra cui numerosi suoi eredi politici – tendono a interpretare gli ultimi anni della sua vita come una fase di sconfitta. La sua grave colpa sarebbe stata quella di non aver compreso la portata innovatrice del craxismo. Io ho un ricordo diverso: furono gli anni in cui rafforzò il rapporto con la base del suo partito e si confrontava con i nuovi movimenti, con la questione femminile, con il tema del rapporto tra Nord e Sud del mondo. Ed era convinto che una politica non fondata sull’etica fosse destinata a corrompersi. Ma questo non significa in alcun modo ridurre la politica a moralismo. E mi sembra che la storia successiva gli abbia dato ragione».
Le immagini dell’ultima Direzione del Pci lo restituiscono stanco.
«Era uno che si spendeva totalmente nell’impegno politico. Ma non voleva fare il segretario a vita. Mentre lo accompagnavamo al congresso del 1983, disse a me e Maria che bisognava cambiare questa regola. Ora non so esattamente con quali tempi. Non poteva certo prevedere che sarebbe morto l’anno successivo».
Nella tumultuosa rimozione dopo l’Ottantanove, Piero Fassino scrisse che morire era stata la sua fortuna politica.
«Mettiamola così: alcuni hanno provato ripetutamente a cancellarne la memoria, soprattutto quelli che volevano accreditarsi nel cosiddetto salotto buono, però una parte importante del partito – elettori, militanti e quadri – lo ha impedito. Si sono dovuti fermare».
Che cosa ti manca di più di tuo padre?
«Mi manca moltissimo che non abbia potuto conoscere niente della nostra vita di adulti. Non potere interpellarlo su quello che faccio. E sulla situazione politica, così distante da quella che lui ha vissuto. Ma quello che mi manca di più è che non abbia potuto conoscere i nostri figli: Letizia, Caterina, Giulia, Enrico e Abril, nata il 26 aprile a Barcellona, in Catalogna».
In Catalogna, dove la storia dei Berlinguer/Berenguer era cominciata. Ma se potessi rivivere un giorno con tuo padre: con i nipoti nel gozzo?
«Con i nipoti sì, ma non in barca. Due di loro sono troppo piccoli per reggere la sfida di papà con il maestrale. E io non riuscirei certo a fargli cambiare idea».
Simonetta Fiori, il Venerdì 16/5/2014