l’Unità 18/5/2014, 18 maggio 2014
IDENTIKIT DI SALINGER – [IN LIBRERIA UN RITRATTO INDAGINE SULLO SFUGGENTE SCRITTORE]
HA L’ASPETTO DI UN FALCONE POLVEROSO, SCOVATO IN SOFFITTA, LA COPERTINA DELL’IMPONENTE, IMPRESSIONANTE BIOGRAFIA DI J. D. SALINGER firmata da David Shields e Shane Salerno e ora pubblicata da Isbn: il minimalismo delle migliori copertine dei classici gialli e polizieschi unito ai colori di certi album di pelle dentro ai quali si conservano le foto di famiglia di una vita. Ed è tutto già lì, se poi questo tentativo di biografia totale assume davvero i contorni di un’indagine poliziesca e si nutre di fotografie, riproduzioni di lettere, biglietti, documenti, brani dalle opere (tra l’altro, in concomitanza, il 20 maggio, in 15 Uci Cinemas, esce sempre curato da Shane Salerno il film Salinger (Il Mistero del Giovane Holden). Come si racconta una vita che il suo protagonista ha o avrebbe voluto nascosta al mondo, invisibile, ignorata? Si indaga, si procede a indizi (presi a gruppi di tre, non costituiscono alcuna prova in questo caso), a intuizioni, a interrogatori: si mettono insieme settecento e oltre pagine di «rapporto» costituite da lasse brevi o brevissime, che corrispondono sempre alle dichiarazioni di un qualche testimone (complice, vittima, passante inconsapevole?) e assumono il carattere della deposizione, dell’alibi, dell’ammissione di colpa, persino dell’accusa.
Come in ogni indagine che si rispetti, si parte dal momento del crimine, che è qui il periodo dello storico D-Day a cui il poco più che ventenne Salinger partecipa da soldato e in cui muore, se non col corpo, con una parte della sua sensibile, innamorata anima. Muore per aver visto morire; muore per aver avuto paura di morire; muore perché tra poco, tornato dalla guerra, scoprirà che la ragazza viennese ai cui piedi era stato bello «infilare i pattini da ghiaccio» è morta in un campo di concentramento; muore perché non arrivano più risposte da Oona, il suo amore giovanissimo e tormentato, a cui ogni giorno ha spedito lettere di dieci pagine e che improvvisamente non ha più risposto: si è sposata con Charlie Chaplin senza dirgli una parola, lasciando i giornali di tutto il mondo a dare la notizia.
Il rapporto Salinger inizia come tutti i rapporti investigativi: dalle tragiche circostanze della scomparsa della vittima. Poi torna indietro, a mosaico, chiamando a raccolta le parole di tutti – e sembra proprio di sentirla, la ripetizione estenuata del concetto che «c’è bisogno dell’aiuto di tutti» per ricostruire una vita, come per scavare tra le macerie di un edificio crollato –, riparte dal Salinger bambino e crea uno strano cortocircuito, quando ce lo mostra – è ancora Sonny, in famiglia – vestito da indiano, ai piedi di una scala. «Mamma, scappo di casa. Ti ho aspettata qui per dirti addio» dice, e tiene stretta nel pugno una valigia piena dell’unica cosa che gli sarà necessaria per la fuga e per una piccola vita in solitudine: soldatini di piombo. Tra i soldatini dell’infanzia e i soldati che gli vengono fatti a pezzi davanti agli occhi su una spiaggia della Normandia, sta la vita agiata di un ragazzo ribelle, i malumori col padre, l’adorazione per la sorella Doris, le amicizie vissute a metà (come per il Bartleby di Melville, erano tanti i suoi «preferisco di no»), le aspirazioni artistiche per la scrittura e il teatro: c’è, soprattutto, ferma e identica, quella volontà di fuga con solo una valigia in mano, che lo rende irrequieto e insieme immenso nel suo perseguire qualcosa che solo lui poteva vedere e prevedere («Scriverò il Grande Romanzo Americano», dirà anzitempo ai suoi colleghi universitari e gli crederà subito, istintivamente, solo Frances, l’amica Frances che sarà l’immortale Franny Glass).
Intanto, i soldatini nella valigia sono stati rimpiazzati da un altro oggetto, che di quel primo contenuto mantiene intatte la magia e l’invenzione e che lo accompagna fino in Normandia: i primi sei capitoli del Giovane Holden. Li porta con sé incontro alle mine, ai razzi piovuti dall’alto, ai colpi di mitraglietta, li porta in mezzo alle onde mentre corre verso la spiaggia francese esattamente con la stessa motivazione per cui un bambino di tre anni porterebbe con sé solo un carico di soldatini: come motivo per sopravvivere. E quei capitoli, da quel momento in poi diventano, nella disfatta, nell’annientamento personale dell’uomo, la prima vera documentazione del rapporto investigativo: perché la vittima ha lasciato scritta la sua storia, storia che si pentirà di aver dato alle stampe quando ormai sarà negli archivi di tutti i lettori-investigatori del mondo e ciò che resta di lui – il suo corpo alto e magro, i suoi occhi inquieti – non potrà che negarsi agli sguardi, per contrapposizione, e sarà di nuovo e ogni volta «ti ho aspettata qui per dirti addio». Quando un testimone non riuscirà a tenere il filo del caso Salinger, si potrà ricorrere a Holden come alla traccia più evidente, quell’Holden che da poco ha una nuova voce nella traduzione italiana, grazie al lavoro di Matteo Colombo per Einaudi e al suo tentativo di restituire un’aderenza del testo alla voce originale del suo autore, come per averne anche un’impossibile traccia audio.
E quel corpo che nonostante tutto ha avuto una lunga vita? Di Salinger restano poche fotografie e rubate, ma dal faldone, alla fine di tutte le deposizioni, rimane qualcosa che spesso vale più di ogni fotografia: perché non dipende dallo sguardo dell’unico soggetto fotografo, non dalla luce intorno, né dalla particolare espressione che il fotografato ha sul momento – e magari non avrà mai più. Rimane un identikit, che come tale è fondato sulla partecipazione e la memoria di tutti coloro che videro; così poco importa se qualcuno avrà barato o ricordato male un sopracciglio.