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 2014  maggio 17 Sabato calendario

L’ARMATA ROSSA – [IL DOC DI POLSKY DEDICATO A FETISON, IL PIÙ GRANDE DIFENSORE DELLA STORIA DELL’HOCKEY]


SE PENSATE CHE LA KLM SIA LA COMPAGNIA AEREA OLANDESE, NON AMATE L’HOCKEY SU GHIACCIO e non avete alcun ricordo delle Olimpiadi invernali di Lake Placid (1980) e di Sarajevo (1984). Certo, era il secolo scorso, una vita fa: la guerra fredda, Breznev al Kremlino e Reagan alla Casa Bianca. «KLM» stava per Vladimir Krutov, Igor Larionov e Sergej Makarov, la micidiale linea d’attacco della nazionale sovietica completata dai difensori Vjaceslav Fetisov e Aleksej Kasatonov e dal leggendario portiere Vladislav Tretjak. Era talmente forte, quell’Urss, che anche la sigla CCCP sulle loro maglie (in cirillico naturalmente SSSR, Urss in russo) era stata modificata ad arte dagli appassionati: per i tifosi italiani CCCP significava «Col Cazzo Che Perdiamo», e scusate per la parola «perdiamo» che quella squadra non sapeva davvero pronunciare.
Ieri il festival di Cannes ha proposto fuori concorso Red Army («Armata Rossa»), documentario di Gabe Polsky prodotto da Werner Herzog. È la storia di Slava Fetisov, capitano di quella nazionale, primo russo a giocare tra i professionisti della Nhl, ministro dello Sport nella Russia di Putin dal 2002 al 2008, membro del comitato delle Olimpiadi invernali di Sochi. È considerato il più grande difensore nella storia dell’hockey: ma in uno sport con un portiere e cinque giocatori di movimento la parola «difensore» ha un senso relativo, tanto che Fetisov ha segnato 48 gol in 123 partite con la nazionale. Del resto la caratteristica di quell’Urss era il gioco corale, un misto fra il balletto e le tattiche di occupazione della scacchiera. Non a caso la nazionale aveva il campione del mondo di scacchi Anatolij Karpov come consulente, e il mitico allenatore Anatolij Tarasov (3 ori olimpici dal 1964 al 1972) si ispirava al training dei ballerini del Bolscioj per rendere armonico il pattinaggio dei giocatori. L’Urss anni ’70 e ’80 sta all’hockey come l’Olanda di Cruijff sta al calcio: tutti attaccanti e tutti difensori, un gioco che provocava agli avversari dolorosissime emicranie.
Ma l’hockey, in Unione Sovietica, non era solo sport. Era costume, cultura, identità, mito. Siamo testimoni di serate in cui Mosca era deserta perché la nazionale giocava contro il Canada o la Cecoslovacchia, le rivali più fiere. E quindi era anche politica. Soprattutto politica. L’unica disfatta di quel periodo, contro gli Stati Uniti nella finale olimpica di Lake Placid, fu una catastrofe nazionale. Fetisov ha un ghigno amaro al ricordo di quella sconfitta, in un match che i media presentarono (nel febbraio del 1980) come uno scontro fra il mondo libero e l’«Impero del Male». L’Urss aveva da poco invaso l’Afghanistan e nell’estate di quel medesimo anno gli Usa avrebbero boicottato le Olimpiadi di Mosca. Al ritorno in patria i giocatori furono segregati per quattro anni: «Stavamo in ritiro 330 giorni all’anno – racconta Fetisov – potevamo vedere la famiglia negli altri 35. Quattro allenamenti al giorno. Esercizi che ci portavano a 220 pulsazioni al minuto. Un solo telefono in tutto il centro sportivo per chiamare casa, tutti quanti in fila. Agenti del Kgb che ci controllavano ad ogni trasferta all’estero. Eppure non ho mai pensato di “disertare”. Volevo giocare per il mio paese, riportare l’oro olimpico in Urss». Lo fecero a Sarajevo, 1984: goleade con tutti nel girone di qualificazione, 4-0 in semifinale al Canada, 2-0 in una tiratissima finale contro i cechi. Fu come liberare le belve dopo quattro anni di prigionia: gli avversari furono sbranati.
Anni dopo, Fetisov fu al centro di un caso politico quando il ministro della difesa Dmitrij Jazov cercò di impedirgli di andare a giocare in America. Fu Gorbaciov a sbloccare la situazione. Nel 1991 Jazov tentò con un golpe di sabotare la perestrojka: provocò «soltanto» la fine dell’Urss.
Red Army racconta queste pagine di sport e di storia con interviste toccanti (soprattutto quella a Krutov, stupenda faccia da muzhik russo, morto un mese dopo averla concessa), un repertorio stupefacente e un brillante senso del ritmo. Nessuno gira i documentari sportivi meglio degli americani (pensiamo a The Armstrong Lie di Alex Gibney, sul famoso ciclista superdopato). Red Army ne è la riprova. Finora, il film più bello del festival.