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 2014  maggio 17 Sabato calendario

L’ALLENATORE INTROVERSO

Se uno dovesse giudicarla da quanto viene ripetuta in giro, la storia che Roberto Donadoni è «taciturno», «poco di moda», «sottovalutato», sembrerebbe un luogo comune. Uno di quei giudizi un po’ faciloni che per qualche ragione la stampa a un certo punto appiccica addosso a un personaggio, come un tic, al punto da definire la sua identità per i secoli a venire: ogni tanto capita. D’altra parte non risulta che il «taciturno» Donadoni convochi meno conferenze stampa o accetti meno interviste dei suoi colleghi. Inoltre, Garcia escluso, è stato probabilmente l’allenatore più sorprendente di questo campionato di Serie A e oggi il suo nome è accostato alle grandi squadre: mica male per uno «poco di moda». E poi: si può definire «sottovalutato» uno che ha allenato una Nazionale campione del mondo a 43 anni? Insomma, aria fritta. Se non fosse che queste cose, tra gli altri, le dice di sé lo stesso Donadoni.
Roberto Donadoni ha appena concluso la miglior stagione della sua vita da allenatore. È arrivato sesto, ha portato il Parma in Europa League e al suo miglior piazzamento da dieci anni a questa parte. Quattro dei suoi giocatori sono stati scelti fra i pre-convocati al Mondiale. Il suo nome circola tra i possibili futuri allenatori di una grande squadra e tutti naturalmente pensano al Milan: non solo per la particolare situazione del Milan ma anche perché prima – prima di diventare un buon allenatore – Roberto Donadoni è stato proprio nel Milan un calciatore formidabile, la smentita vivente di quel luogo comune (un altro) per cui un calciatore geniale deve necessariamente portarsi dietro anche la follia, la sregolatezza, a volte persino l’inaffidabilità. Donadoni era geniale e serissimo, ordinato e imprevedibile, allo stesso tempo tremendamente elegante e tremendamente efficace. «Il miglior giocatore italiano degli anni Novanta», ha detto di lui Michel Platini: probabilmente non è vero, ma il fatto a qualcuno venga in mente di metterlo in quel campionato lì – Baggio, Maldini, eccetera – rende l’idea.
Donadoni finisce la sua carriera da calciatore girando un po’ – MetroStars di New York, poi di nuovo Milan, poi Al-Ittihad in Arabia Saudita – e inizia quella da allenatore nel 2001 a Lecco, in Serie C1. Decimo posto, non confermato. L’anno dopo arriva a Livorno, in Serie B: decimo di nuovo, non confermato. Poi Genoa, nella Serie B a 24 squadre: tre sconfitte consecutive, esonerato. Donadoni comincia piano: non come Montella o Simeone, per capirci. Questa caratteristica combacia perfettamente con quella cosa che si dice di lui, col luogo comune, con l’immagine di Donadoni compassato, paziente, persino noioso. Ma anche stavolta è Donadoni stesso a dire di essere «sempre calmo, controllato: tengo tutto dentro»: evidentemente è vero. Dice addirittura di non ricordare quanti scudetti ha vinto. Oppure: «Non so dire qual è il mio gol più bello perché non me ne viene in mente uno. Non ricordo i nomi di tutti quelli con cui ho giocato, né quelli degli arbitri che mi hanno diretto. Non mi piacevano i riflettori allora, non mi piacciono adesso». A volte sembra che ci sia anche un po’ di narcisismo nel suo descriversi così, nel suo usare frasi come «è meglio essere padrone dei propri silenzi che schiavo delle proprie parole». Se però un giornalista cerca una critica nei confronti di allenatori più spacconi e teatrali, come Mourinho, lui non sta al gioco: «Ci vuole abilità anche per fare quello che fa lui. Dopo Barcellona-Real Madrid 5-0 è stato grande: in sala stampa, con un plotone di esecuzione, composto da centinaia di giornalisti, schierato, è stato chiaro, onesto, diretto. Ha fatto una grande gestione di un dopo partita che più difficile non si può immaginare».



La carriera di Donadoni da allenatore cambia tutta in 18 mesi. All’inizio del 2005, dopo oltre un anno di inattività, il Livorno lo chiama in corsa per sostituire Franco Colomba. Donadoni mette insieme 22 punti nel girone di ritorno e chiude al nono posto. L’anno successivo, più o meno con la stessa squadra, dopo cinque giornate il Livorno è imbattuto con 11 punti. Chiude il girone d’andata con 35 punti. Avesse ripetuto gli stessi punti nel girone di ritorno, complice lo sconquassamento di Calciopoli, avrebbe finito il campionato da secondo in classifica. Quel Livorno è indubbiamente la sorpresa del campionato ma dopo 23 giornate, quando è addirittura quinto, il presidente Spinelli va in tv da Biscardi e dice che «è un mese che non vinciamo e giochiamo male». Donadoni si dimette istantaneamente. Molti dei suoi colleghi lo difendono: Ancelotti dice che il Livorno non avrebbe trovato «un allenatore come lui». Spinelli insiste: «Non eravamo più belli come all’inizio del campionato e questo io l’ho già vissuto in passato. In serie B, sempre con Donadoni, abbiamo fatto un bel girone di andata e poi ci siamo persi in quello di ritorno, la mia paura era quella che si potesse ripetere». Circolano anche altre voci, in quei giorni: si dice che Donadoni ha la testa altrove (già allora si parlava del Milan) o addirittura che ha un brutto rapporto con Lucarelli per ragioni politiche («Donadoni è berlusconiano e il bomber amaranto dichiaratamente comunista», scrisse il Corriere). Alla fine della stagione il nome di Donadoni viene accostato al Milan, che però decide di continuare con Ancelotti, e soprattutto alla Juventus, appena retrocessa d’ufficio in Serie B. Poi lo chiama la FIGC. È successo tutto in un anno e mezzo.



Nell’estate del 2006 il calcio italiano attraversa un momento unico nella sua storia, di esaltazione e frustrazione insieme, alle prese con la miglior generazione di calciatori e la peggiore crisi degli ultimi decenni. Donadoni in quel momento è giovane, fuori dal giro delle grandi squadre coinvolte negli scandali e soprattutto, che gli piaccia o no, è di moda. Le sue dimissioni, inoltre, ne hanno rafforzato il profilo nell’ambiente e gli hanno permesso di lasciare il Livorno nel suo momento migliore: nessuno saprà mai se il calo preconizzato da Spinelli sarebbe arrivato o no. (Sappiamo che arrivò eccome con l’allenatore che lo sostituì, Carlo Mazzone.) Donadoni in Nazionale conserva il grosso dell’Italia del 2006, meno Nesta e Totti che intanto si rendono indisponibili. Comincia piano di nuovo – nessuna vittoria nelle prime tre partite – ma alla fine si qualifica agli Europei con una giornata di anticipo, cosa che non era mai successa prima. Gioca con la difesa a quattro (agli Europei deve rinunciare anche a Cannavaro, infortunato), un centrocampo costruito su quello del Milan di Ancelotti (Pirlo, Gattuso e uno tra Ambrosini e De Rossi) e un attacco con Toni affiancato da Camoranesi e uno tra Di Natale e Cassano.



La prima partita degli Europei è un ceffone: sconfitta per 3-0 contro l’Olanda che due anni dopo sarebbe arrivata in finale di Coppa del Mondo. La seconda partita è un’altra sofferenza: 1-1 contro la Romania, e meno male che Buffon para un rigore. La terza partita è una piccola rivincita: vittoria per 2-0 contro la Francia. I quarti di finale, cosa sono stati, non lo abbiamo ancora capito. Si gioca contro la Spagna, l’Italia fa catenaccio per quasi tutta la partita e alla fine perde ai rigori. «Due anni di lavoro battuti da un rigore», dice poi Donadoni, e uno capisce la frustrazione: lui ai rigori ha perso anche gli Europei Under 21 del 1986, i Mondiali del 1990 e quelli del 1994. Va detto che l’Italia gioca quella partita, oltre che senza Cannavaro, anche senza Gattuso e Pirlo. E va detto che dopo quella partita la Spagna va a vincere gli Europei, e poi i Mondiali, e poi di nuovo gli Europei, e forse non ha ancora finito. Fatto sta che Donadoni viene ingenerosamente masticato dai giornali. L’operazione di demolizione, che Donadoni non riuscì a evitare né a governare, era cominciata qualche settimana prima: per tutto il ritiro si era parlato di una sua fantomatica lettera di dimissioni già scritta e pronta per essere consegnata ad Abete, nonché del desiderio di Marcello Lippi di ritornare sulla panchina dell’Italia. Quello che succede dopo è tristemente noto: Lippi torna ad allenare l’Italia e la conduce verso una delle peggiori umiliazioni della sua storia. Per dirla come la disse Donadoni: «Quel progetto tecnico, con l’inserimento di tanti giovani, da Aquilani a Cassano, è stato sostituito da nessun progetto tecnico, come hanno dimostrato i Mondiali in Sudafrica».
Per Donadoni cambia tutto di nuovo: era arrivato a Coverciano come l’uomo del momento, ne esce ridimensionato. «Donadoni allenatore è un inspiegabile garbuglio», ha scritto Maurizio Crosetti su Repubblica. «Non ha mai fatto proprio male, ma non ha mai fatto benissimo. Lo hanno mandato via senza crolli o tracolli, ma quasi sempre in modo inspiegabile.» Dopo due stagioni da rivelazione della Serie A e due anni da allenatore della Nazionale, incarico che da molti sarebbe considerato un punto di arrivo, Donadoni deve di fatto ricominciare da capo: e a un certo punto sembra essersi trasformato in un allenatore tappa-buchi, di quelli che vengono chiamati a gennaio per salvare le squadre in difficoltà. Prende il Napoli in corsa nel 2009, viene esonerato. Prende il Cagliari in corsa nel 2010, si salva, poi litiga con Cellino e se ne va (quando è tornato a Cagliari da allenatore del Parma, tutto lo stadio si è alzato in piedi ad applaudirlo). Nel 2012 prende in corsa il Parma. Stavolta non ci sono presidenti umorali come quelli di Livorno, Cagliari e Napoli. Cominciare piano, eventualmente, non è un problema. Alla fine dell’anno arriva settimo.
Nella stagione successiva ottiene una salvezza tranquilla, raddrizzando la squadra nel girone di ritorno col passaggio alla difesa a tre e due terzini molto prudenti, Rosi e Gobbi. Poi arriva questa stagione, quella appena conclusa, quella del botto. Comincia di nuovo piano, poi cambia modulo e ritorna alla difesa a quattro. Davanti alla difesa c’è Marco Marchionni, sua personale e intelligente invenzione: un’ala dai piedi buoni trasformata in regista, ruolo che richiede un altro passo. L’unica punta il più delle volte è Antonio Cassano, altra decisione azzeccata, non più seconda punta ma falso nove: scende a prendere palla, si porta dietro un difensore e lancia negli spazi gli esterni Biabiany e Schelotto. La squadra funziona bene, attacca anche con i terzini, segna molto, sa tenere il pallone: non si limita a reagire e ripartire. Risultato: 58 punti, qualificazione in Europa League, una corposa delegazione del Parma in Nazionale.
Vuol dire che Donadoni è pronto per una grande squadra? Questo ancora non è chiaro, principalmente per due ragioni. La prima riguarda il tipo di squadre che Donadoni sa allenare. Arrivato a Parma, Donadoni disse: «Mi piacerebbe che diventasse una piccola fabbrica di talenti, come l’Ajax». Una grande squadra non è una “piccola fabbrica di talenti”, ma il bel Parma di questa stagione non è stato neanche questo: da Cassano ad Amauri, da Schelotto a Biabiany, da Paletta a Molinaro, da Obi a Felipe, da Marchionni a Rosi, da Gobbi a Gargano, il Parma non è fatto in gran parte né da giovani promesse né da campioni affermati, bensì da ex calciatori di grandi squadre recuperati e rigenerati. Con i campioni funzionerebbe? Questa domanda ci porta al secondo dubbio, che riguarda l’ampiezza della cassetta degli attrezzi di Donadoni. Il problema non è «sapersi vendere» o «coltivare la nobile arte italiana della paraculaggine», come ha sintetizzato il Foglio, bensì disporre di una serie di strumenti caratteriali, psicologici, carismatici per gestire come si deve gruppi complicati e pressioni enormi da parte della stampa e dei tifosi. Per orientare le conversazioni e sfruttarle a proprio vantaggio, invece che farsene schiacciare com’è successo durante gli Europei del 2008. Sapere molto di calcio non basta, oltre un certo livello. Donadoni ogni tanto sembra spazientirsi quando gli chiedono del suo carattere – «io non mi permetto di giudicare qualcuno vedendolo alla tv» – e la cosa è umanamente comprensibile: ma il punto è che non si parla più di quanto è simpatico o di quanto è triste. Si parla, anche in quel caso, di quanto può esser bravo a fare l’allenatore.