Francesco Saraceno, Corriere della Sera 19/5/2014, 19 maggio 2014
CEDERE SOVRANITÀ PER ESSERE PIÙ FORTI IL FEDERALISMO VIA MAESTRA EUROPEA
Caro direttore, all’avvicinarsi delle elezioni europee il dibattito sul futuro della Ue sembra ostaggio di due visioni contrapposte, ugualmente insoddisfacenti. A chi si compiace della mancata implosione dell’economia europea, si contrappone chi vede come unica soluzione il ritorno alle valute nazionali. Nessun movimento politico sembra farsi portatore delle istanze riformiste che invece dominano il dibattito accademico e di politica economica.
Le istituzioni europee e la maggior parte dei governi si cullano in una sorta di autocompiacimento, indotto dal fatto che nonostante la violenza della crisi la zona euro è sopravvissuta e sembra essersi lasciata alle spalle i giorni peggiori. Occorre dunque continuare con l’austerità (magari ammorbidita) e affiancarle le riforme strutturali che consentano, sul modello tedesco, di essere più competitivi e aumentare le proprie esportazioni. Il movimento degli euroscettici ha però buon gioco nel ricordare che la gestione calamitosa della crisi, e le innovazioni istituzionali adottate precipitosamente (il fiscal compact e il fondo salva Stati), hanno imposto un costo spropositato e inutile soprattutto ai Paesi periferici, non riuscendo a proporre altro che un’austerità i cui effetti sono messi in dubbio anche dal Fondo monetario internazionale.
La diagnosi degli euroscettici è corretta. E si può aggiungere che quattro anni di crisi, e di enfasi sulle sole finanze pubbliche, ci lasciano in eredità una zona euro spaccata in due, e quindi ancora più vulnerabile di fronte agli shock esterni di quanto non fosse nel 2007. La distruzione di capitale, umano e fisico, nei Paesi in crisi, avrà effetti negativi ancora per anni. Sorprendentemente, tuttavia, le sempre più inoppugnabili critiche alle politiche seguite in Europa non si traducono in una proposta politica riformista. A una settimana dalle elezioni europee, le sole voci udibili, nel dibattito pubblico, sono quelle dei propugnatori dell’uscita dall’euro. La soluzione di ritornare alle valute nazionali sembra tuttavia essere semplicistica. Nessun economista in buona fede potrebbe oggi avventurarsi nell’impossibile avventura di stimare gli effetti del processo messo in moto da un’uscita dall’euro. Le stime di costi e benefici che circolano con insistenza, sia in un campo che nell’altro, sono poco più che elucubrazioni da palla di vetro. Di quanto si svaluterebbe la nuova lira? Come reagirebbe il sistema bancario? Che cosa farebbero gli altri Paesi? E se uscissero anche loro, cosa succederebbe con le svalutazioni competitive? Che cosa succederebbe al debito di imprese e consumatori? Di quanto aumenterebbe la competitività? Tutte domande intrecciate tra loro, che disegnano scenari semplicemente impossibili da prevedere, e con tutta probabilità disordinati.
La risposta degli euroscettici a queste obiezioni è che, per quanto rischiosa, un’uscita dall’euro è sempre preferibile agli anni di quasi stagnazione che ci attendono, con tassi di crescita da prefisso telefonico, e con tassi di disoccupazione che diventano cronicamente elevati. L’Europa tedesca (espressione un po’ sinistra) è irriformabile, e il salto nel buio di un ritorno alla sovranità monetaria sarebbe comunque preferibile alla lenta agonia dello status quo.
È a questa conclusione che occorre opporsi con forza. Si fa sempre più strada, tra chi non è accecato dal totem dell’austerità, la consapevolezza che ciò che manca nell’Unione monetaria europea è una struttura di tipo federale, che aiuti ad assorbire gli shock asimmetrici che colpiscono e colpiranno i Paesi membri. Anche nei flessibili Stati Uniti i trasferimenti che avvengono tramite il bilancio federale aiutano ad assorbire una buona parte degli shock asimmetrici, e a contrastare pericolose divergenze del tipo di quelle viste in Europa negli ultimi anni.
Se, come è lampante, il progetto federale è oggi poco più di un’utopia, è comunque vero che il dibattito accademico di questi anni ci ha fornito una serie di strumenti che potrebbero servire da surrogati di una struttura propriamente federale. Gli eurobond, un sussidio di disoccupazione europeo, una banca centrale che operi da prestatore di ultima istanza, sono solo alcuni esempi di misure che con trasferimenti limitati di sovranità consentirebbero ai Paesi europei di dotarsi di meccanismi di compensazione, senza eccessivi rischi di comportamenti opportunistici.
La soluzione quindi esiste, e la conosciamo. Obiettare che «tanto i tedeschi non accetteranno mai» significa alzare bandiera bianca nel dibattito intellettuale, e soprattutto rassegnarsi alla scelta polare tra due soluzioni che in modo diverso infliggerebbero un colpo mortale al progetto europeo e al benessere dei nostri concittadini.
Certo è inquietante constatare quanto poco questi temi siano presenti nel dibattito (in particolare, il silenzio dei partiti progressisti è assordante). Ma è giusto rivendicare con forza, alla vigilia di importanti elezioni europee, il diritto di non scegliere tra uno status quo equivalente a un lento e inesorabile declino, e un ritorno che è difficile immaginare non caotico, all’Europa degli Stati nazione.