Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 19/5/2014, 19 maggio 2014
NON SI CRESCE DI SOLE PROMESSE
È bastato un piccolo numero negativo sull’andamento del Prodotto interno lordo nel primo trimestre dell’anno (meno 0,1%) per riportare indietro di due mesi le lancette dello spread. Dimostrazione di quanto sia ancora fragile la nostra economia.
I problemi in realtà vengono da lontano. Gli spread, le differenze di rendimento fra i titoli di Stato della periferia europea e quelli tedeschi sono scesi, negli ultimi cinque mesi, in buona parte per effetto dello spostamento dei flussi finanziari internazionali dai Paesi emergenti verso l’Europa. Abbiamo cioè tratto beneficio dalle preoccupazioni sulla stabilità macroeconomica, in particolare di Cina, Brasile e Turchia. Ma l’esperienza insegna che gli investimenti verso quei Paesi sono spesso volatili, fatti di «stop and go », con flussi massicci, seguiti da uscite improvvise. La fuga degli investitori dai Paesi emergenti, che è stata impetuosa all’inizio dell’anno, si è ora arrestata. Anzi, vi sono segni di un ritorno di fiducia, almeno verso alcuni Paesi, come il Brasile. Non solo, ma si mormora che la fiducia concessa ai Paesi europei ad alto debito fosse eccessiva. Il ministro dell’Economia Padoan ha quindi ragione quando si dice preoccupato che la finestra di spread contenuti si possa chiudere. I segnali non mancano. Giovedì scorso eravamo a quota 178, trenta punti in più della settimana prima.
Per evitare una nuova caduta nella fiducia dei mercati è quindi essenziale che dal giorno dopo le elezioni europee il governo acceleri sulle riforme promesse per cercare di aiutare l’Italia a uscire da una recessione che sembra non finire mai e che in sette anni ci ha fatto perdere il 10 per cento del reddito e un milione e centomila posti di lavoro.
Finora il rapporto fra promesse e realizzazioni non è stato soddisfacente. L’Italia ha molte imprese assai produttive che esportano con successo, altre che sopravvivono boccheggiando. Abbiamo bisogno di un mercato del lavoro flessibile che permetta di riallocare la mano d’opera da un tipo di impresa all’altro. Ciò significa sostituire la cassa integrazione, che oggi lega il lavoratore all’impresa mantenendo in vita anche quelle inefficienti, con un sussidio universale che protegga i lavoratori, non i posti di lavoro, e consenta al mercato di aggiustarsi. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, arrivata in Senato a inizio aprile, apre alla possibilità di un contratto unico con tutele crescenti — e questa è una svolta importante —, ma non elimina la cassa integrazione e non spiega come verrà finanziato il sussidio universale per i disoccupati, un intervento che Tito Boeri e Pietro Garibaldi su www.lavoce.info stimano costerebbe oggi fra i 10 e 15 miliardi netti l’anno. Inoltre, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, varata la scorsa settimana, aiuterà nel breve periodo, ma potrebbe rendere più difficile il passaggio al contratto unico.
Vi è ancora troppa incertezza su che cosa il governo intenda fare dal lato della spesa per permettere una riduzione significativa del cuneo fiscale. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli sta lavorando bene: è disposto il governo ad ascoltarlo? E, soprattutto, sono disposti il governo e la sua burocrazia non solo ad approvare una lista di tagli, ma poi a farli davvero, senza compensare con la mano destra quello che taglia la sinistra?
Se l’obiettivo è ridurre le imposte sul lavoro di 20-25 miliardi nei prossimi 5 anni, certo non basta tagliare qualche auto blu e le Province (la cui abolizione è benvenuta, ma nell’immediato produrrà scarsi risparmi). Non vi è nemmeno chiarezza su che cosa il governo intenda chiedere all’Europa. Più flessibilità sul deficit per permettere una riduzione aggressiva delle imposte sul lavoro? E con quali assicurazioni su tagli di spesa graduali, ma incisivi? Senza questi ultimi l’Europa ci dirà giustamente di no. Matteo Renzi ha parlato con grande entusiasmo di riforme della Pubblica amministrazione per far risparmiare tempo e denaro a cittadini e imprese. Parole sante, ma i fatti si fanno attendere. Quali provvedimenti per ridurre i costi di «fare impresa»?
E a proposito di imprese e concorrenza, anche in questo caso qualche atto simbolico, ma finora scarsi risultati. Intendiamoci, anche i simboli sono importanti. Renzi è stato coerente nel suo impegno ad abbandonare la concertazione in modo che la politica economica non sia più condizionata da sindacati e Confindustria. Pur essendo il segretario del Pd, non ha partecipato al congresso della Cgil. Poi, però, venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha varato una privatizzazione delle Poste che pare essere fatta a pennello per i sindacati, e infatti riscuote l’applauso di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, l’organizzazione più importante fra i lavoratori delle Poste. Una privatizzazione che sembra un regalo ai dipendenti dell’azienda, a scapito della concorrenza nel settore bancario e assicurativo. Quindi a scapito dei cittadini.
Matteo Renzi sta perdendo di vista gli obiettivi più importanti. Nelle prime settimane, decine di slides e raffiche di promesse servivano per dare al governo il necessario slancio iniziale. Ma ora quella strategia rischia di dare l’impressione che il governo non sappia identificare le priorità. Occorre concentrarsi, scegliendo pochi provvedimenti chiave e portandoli in porto con una determinazione che invece si sta affievolendo.