Andrea Bassi, Il Messaggero 19/5/2014, 19 maggio 2014
PETROLIO, SFIDA CROATA ALL’ITALIA SUL GIACIMENTO NELL’ADRIATICO
ROMA Pelagosa. Per capire quello che sta succedendo nel mare Adriatico bisogna partire da qui, da questa piccola isola, quasi uno scoglio dimenticato in mezzo al mare. Letteralmente dimenticato. È a poche miglia dalle isole Tremiti. In passato la lingua che si parlava era il dialetto napoletano perché fu colonizzata da pescatori ischitani. Era italiana, ma dall’unità in poi, passando per le guerre mondiali, incuria e disinteresse hanno fatto sì che Roma se ne dimenticasse. Se l’è presa la Croazia. Pelagosa, trenta chilometri dalla costa del Gargano, sta per celebrare la sua nemesi. L’isola dimenticata è nel «blocco 19», 1.448 chilometri quadrati di Adriatico indicati su una mappa preparata dal governo di Zagabria. Uno spicchio d’acqua che insieme ad altri 28 spicchi che coprono l’intero Adriatico poco più di un mese fa sono stati messi a gara dall’amministrazione croata per la ricerca e lo sviluppo di idrocarburi. In altre parole, mentre i No Triv italiani hanno bloccato le ricerche e i progetti alle Tremiti, a poche decine di metri i croati sono pronti ad estrarre quello stesso petrolio e gas al quale Roma sembra rinunciare.
LA STRATEGIA
Quello che succede a sud è lo specchio di quello che avviene anche nel Nord dell’Adriatico. Mentre le concessioni italiane rimangono al palo, frenate da complicati iter procedurali e da una cascata di autorizzazioni (comprese quelle della Regione Veneto) per iniziare solo a pensare di installare una piattaforma, la Croazia ha messo il turbo ai suoi progetti di sfruttamento, in modo da anticipare Roma e accaparrarsi i migliori giacimenti nel mare comune.
Il ministro croato degli esteri, Ivan Vrdoliar, è stato chiaro che più chiaro non si può. Sotto i 12 mila chilometri quadrati di mare divisi in 29 concessioni ci sono 3 miliardi di barili, per i quali sono pronti a sfidarsi a suon di rilanci milionari tutte le grandi major mondiali, dalla Shell a Exxon, compresa l’italiana Eni. Questo, ha detto il ministro, può fare della Croazia «una piccola Norvegia di gas a Nord e di petrolio a Sud». Zagabria, insomma, vuole diventare «un gigante energetico europeo».
E l’Italia, coinquilino del mare Adriatico? L’Italia rischia di condividere tutti i rischi dell’impresa croata lasciando a Zagabria tutti gli utili. L’allarme è stato lanciato ieri su Il Messaggero dall’ex premier Romano Prodi, da sempre attento osservatore delle questioni energetiche e geopolitiche. «La gran parte delle trivellazioni - spiegava ieri Prodi - si trova lungo la linea di confine delle acque territoriali italiane, al di qua delle quali ogni attività di perforazione è bloccata. Si tratta di giacimenti - aggiungeva - che si estendono nelle acque territoriali di entrambi i paesi ma che, se non cambierà la nostra strategia, verranno sfruttati dalla sola Croazia». Secondo Gianni Bessi, vice presidente della provincia di Ravenna che da tempo si occupa delle potenzialità di sfruttamento nell’alto adriatico, la posta in gioco è molto alta. «Oltre le 12 miglia al largo di Chioggia - spiega - sono noti da tempo 16 giacimenti per un totale di circa 30 miliardi di metri cubi di riserve certe, alle quali vanno aggiunte quelle che debbono essere ancora individuate». I conti non sono difficili. «Applicando un Psv (punto di scambio virtuale, ndr) di 0,35 euro al metro cubo, si tratta di un patrimonio di ricchezza di 10,5 miliardi di euro». Questo tesoretto, spiega Bessi, avrebbe impatto positivo anche sui conti pubblici. «Questo volume - spiega ancora Bessi - può produrre tra royalty e prelievi per il sistema fiscale italiano, secondo un calcolo del tutto prudenziale, un valore di circa 2-2,5 miliardi di euro, senza considerare che va anche aggiunto un saldo attivo nella bilancia dei pagamenti di 10,5 miliardi di euro». Ed è solo un pezzo della storia.
GLI INVESTIMENTI
Come ha ricordato Prodi, se solo l’Italia accelerasse sui progetti già individuati, potrebbe raddoppiare entro il 2020 la sua produzione di idrocarburi a 22 milioni di tonnellate, attivando anche investimenti per oltre 15 miliardi di euro. Questo permetterebbe in pratica anche di mettere in sicurezza il sistema energetico nazionale ancora troppo dipendente da Russia, Libia e Algeria. La crisi Ucraina e le tensioni a Bengasi e Tripoli di questi giorni dovrebbero essere un monito. Ma c’è anche un’altra considerazione. I 15 miliardi di investimenti che le compagnie sono pronte ad avviare nei prossimi anni finirebbero per il 95 per cento ad imprese italiane, che nel settore dell’Oil&Gas sono tra le più avanzate al mondo.
Dalle piattaforme alle valvole, tutte le classifiche indicano il made in Italy come un’eccellenza assoluta, anche in tema di sicurezza ambientale. La ricerca di idrocarburi nelle acque territoriali italiane, invece, rischia di essere bloccata a tempo indeterminato. In Senato è stato approvato a larga maggioranza uno sconsiderato ordine del giorno che blocca le trivellazioni entro le 12 miglia. E mentre Roma frena, Zagabria approfitta.