Giuliana De Vivo, Il Giornale 19/5/2014, 19 maggio 2014
IKEA, 25 ANNI PER FINIRE IN CASA DI TUTTA ITALIA
I libri nella Billy, la tv o le riviste sopra il Lack, i giocattoli dei bambini nelle scatole trasparenti e colorate che si incassano dentro Expedit: 25 anni di Ikea in Italia hanno prodotto un cambiamento nel nostro vocabolario, che già afflitto da troppi inglesismi ora è anche pieno di «ikeismi», cioè le parole che identificano mobili e complementi dello store low cost più famoso al mondo.
Non solo termini svedesi, ma pure nomi di località di Danimarca e Finlandia, scelti perché il fondatore Ingvar Kamprad, dislessico, la ritenne una tecnica più adatta a ricordare i nomi dei prodotti: meglio parole che già conosco, invece di impersonali codici numerici, deve aver pensato, molto prima di sapere che quei nomi sarebbero diventati di uso comune nelle nostre conversazioni, e quegli oggetti immancabili nelle case delle famiglie italiane.
Nasce anche il museo
Sì, perché queste nozze d’argento dell’Ikea con l’Italia hanno prodotto una visibile uniformità negli arredi.
Certo le combinazioni sono tante - solo i novellini comprano l’armadio o il letto già pronti, gli esperti veri studiano il catalogo a fondo, scelgono i pezzi componibili e poi li mixano - ma l’impronta dello stile è riconoscibile: tanti colori, forme semplici, oggetti multiuso. Tutto a prezzi accessibili. E così man mano che i punti vendita spuntavano come funghi nel Paese - dal primo nel 1989 a Cinisello (Milano) oggi sono 21 - alla loro diffusione corrispondeva una sempre maggiore affezione per lo stile «svedese»: librerie, tavoli e tappetini hanno cambiato nome, le coperte di lana ereditate dalle nonne sono state sostituite dai piumoni (con gli immancabili copripiumoni) anche se abitiamo a Palermo, ci siamo persino appassionati alle loro polpette, nonostante lo scandalo sull’eventuale presenza di carne di cavallo non dichiarata al loro interno, molto prima che il fondatore di Eataly Oscar Farinetti portasse dentro i ristoranti Ikea il suo «Vino Libero». L’Ikea è un brand la cui filosofia si sposa bene pure con l’odierna era dell’instabilità: forse non starai comprando una cucina «per tutta la vita», ma un armadio o un letto che potrai smontare e rimontare trenta o trecento chilometri più in là, a seconda di dove ti porterà il prossimo lavoro: è come se l’Ikea comprendesse i suoi coetanei 25-30enni, che con quest’idea della casa «momentanea» sono cresciuti, e fosse riuscita a rendere cool pure la precarietà. Ma attenzione a pensare che il brand svedese sia solo per chi non si può permettere il divano in pelle nel megasalotto di un attico con vista Parco Sempione o Villa Borghese.
Il bello dell’Ikea è che fa tendenza trasversalmente. Piace alle persone normali e ai vip, a quelli nazionalpopolari e agli intellettuali: unisce insomma più di un partito politico o di una fede calcistica. Le riviste di gossip raccontano di avervi avvistato il cantante Valerio Scanu, la conduttrice Barbara D’Urso, l’attore Luca Argentero e l’attrice Martina Stella. E ovviamente non è un luogo di tendenza che si rispetti se non ci sono i selfie delle showgirl: Aida Yespica ha twittato la sua foto tra gli scaffali del magazzino, arrampicata in posa sexy su un carrello pieno zeppo di addobbi natalizi, mentre Cecilia Rodriguez, la sorella di Belén, ha cinguettato una foto davanti allo specchio di un guardaroba, in compagnia di un’amica e dell’ex tronista Francesco Monte.
Ma anche i politici non mancano. Due anni fa la senatrice Anna Finocchiaro fu pizzicata all’Ikea di Roma con la scorta: qualcuno s’indignò, le si difese dicendo: «La scorta mi è stata imposta e nonostante ciò provo a fare una vita normale». E la normalità comprende, appunto, andare all’Ikea. Come del resto hanno fatto, debitamente paparazzati, Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani, e persino la sobria Elsa Monti, moglie dell’ex premier. Su internet girano strane statistiche, come quella secondo cui il 10 per cento degli europei in vita sarebbe stato concepito su un letto Ikea: non si capisce chi l’ha messa in giro per primo, ma di sicuro in molti ci credono.