Cristina Taglietti, Corriere della Sera - La Lettura 18/5/2014, 18 maggio 2014
DUE LINGUE PER SCRIVERE: I FILM IN ITALIANO E I ROMANZI IN INGLESE
Negli Stati Uniti è una scrittrice, in Italia una sceneggiatrice. La doppia vita di Francesca Marciano si è sempre svolta lungo l’asse Roma-New York con una significativa deviazione che l’ha portata in Africa. Due vite, due professioni (ma è stata anche attrice e regista), due lingue. «Ormai ho legato la mia voce di scrittura letteraria all’inglese, quella del cinema all’italiano » racconta a «la Lettura» nella sua casa romana di Trastevere dove è appena tornata dopo un lungo soggiorno negli Usa. «A ognuna do un significato emotivo diverso. L’inglese rappresenta un momento importante della mia vita. È la lingua in cui io sono diventata me stessa. Sicuramente una parte di me si sente in colpa per aver tradito la madrelingua, a volte mi sembra di essermi esiliata. Però il numero degli scrittori destinati a scrivere in una lingua non loro è destinato a crescere. Per me non è stata un’imposizione ma una scelta».
In America è uscito da un mese il suo nuovo libro The Other Language, pubblicato da Pantheon, nove racconti accolti con grande entusiasmo dai recensori. Michiko Kakutani, temuta critica del «New York Times», l’ha paragonata ad Alice Munro per la «capacità di cogliere l’intero arco di vita di un personaggio in una manciata di pagine» e ha elogiato «la sua prosa precisa e allo stesso tempo fluente». Nove racconti legati da un tema «che io ho capito — spiega — soltanto a posteriori. Sono tutte storie di trasformazione, di reinvenzione, di persone che si trovano in luoghi non famigliari, costrette a parlare un’altra lingua, ad adattarsi a nuove regole e a codici etici diversi». Alcune sono ambientate in Italia, alcune in Africa, una in India (la storia di una coppia il cui matrimonio si sfalda nel giro di 24 ore), un’altra — quella che apre e dà il titolo alla raccolta — in Grecia, dove una tredicenne che ha appena perso la madre in un misterioso incidente viene portata in vacanza dal padre e lì si innamora di un ragazzo e della lingua inglese.
«Sono racconti che ho scritto insieme, in un tempo limitato — spiega Marciano — ma erano idee che avevo già, alcune da molti anni. Me le sono conservate mentalmente a lungo, poi a un certo punto ho avuto il desiderio di scriverle. Si sa che gli editori non sono mai contenti di pubblicare racconti, però quando li ho proposti all’editor di Knopf, Robin Desser, con cui ho sempre lavorato, è subito stata favorevole. Gliene ho mandati due per volta, era una sfida anche per lei. Nel frattempo Alice Munro ha vinto il Nobel, poi sono usciti i libri di Jennifer Egan e George Saunders e questo ha riaperto uno spazio editoriale per il genere». Ma come si fa a scrivere in una lingua diversa? «L’inglese è sempre stata la mia seconda lingua, anche se nessuno in famiglia lo parlava. L’ho imparato da sola, a 13 anni, complice anche il fatto che la mia migliore amica fosse americana».
Giovanissima, Francesca Marciano inizia a fare l’attrice. Nel 1975 Lina Wertmüller la sceglie per un ruolo in Pasqualino Settebellezze, poi con Pupi Avati fa La casa dalle finestre che ridono e Tutti defunti tranne i morti: «Ho capito subito che non era la mia storia, però mi piaceva il cinema. Così sono andata a New York per seguire dei corsi e ho finito come tutti con il fare la cameriera». Nella Grande Mela scrive con Stefania Casini Lontano da dove, film che racconta proprio la storia di un gruppo di ragazzi che si trasferiscono in America. Il successo del film, prodotto dalla Gaumont e presentato a Venezia, non è però l’inizio di una carriera da regista. «A New York mi sono tolta anche dall’equivoco di poter fare la regista. Non ho un talento tecnico, non ho la visione della ripresa, del mezzo. Volevo solo raccontare, scrivere. E siccome la mia lingua era l’italiano pensavo di dover vivere qui. Quindi sono tornata in Italia». A Roma scrive Turnè per Gabriele Salvatores, collabora con Carlo Verdone per tre film, ma riparte presto. «Sono andata a fare un viaggio da sola in Africa e ho provato immediatamente un’enorme attrazione per un luogo dove le parole hanno poco significato. Sono andata in Kenya, non a Malindi, ma in luoghi un po’ remoti. Mi ha molto attratto l’idea di ricominciare una vita diversa. E ci sono rimasta dieci anni».
Dieci anni in cui smette di scrivere per il cinema e realizza documentari per la tv italiana. «Sono stata in Sudan, in Ghana. Erano gli anni dei grandi conflitti, della Somalia, del Ruanda e Nairobi era un po’ il centro dove c’era questo gruppo privilegiato, di cui anch’io facevo parte, che fingeva che le guerre non li riguardassero. Poi c’erano i giornalisti che invece, magari, tornavano dal Ruanda, raccontavano di conflitti sanguinosi e avevano un atteggiamento meno romantico, più politico».
Il primo libro, Cielo scoperto, racconta queste due facce. «Quando ho sentito l’esigenza di raccontare queste storie, questo clima, volevo scrivere in italiano, ma il primo appunto che ho buttato giù era in inglese. Ho provato a tradurlo, ma ho capito che non ero in grado, sentivo che c’era qualcosa di poco autentico. Così mi sono trovata con un manoscritto in inglese, ambientato in un Paese che non era l’Italia, l’ho portato a un agente a Londra che poi l’ha venduto a Pantheon, il mio attuale editore. È un libro che è stato tradotto in diciassette lingue, in Italia l’ha pubblicato Mondadori ma non ha avuto alcun esito, e infatti ora è introvabile». Scrivere in inglese significa poi tradurre in italiano. «I libri successivi, Casa Rossa e La fine delle buone maniere li ho tradotti io stessa. A volte penso che forse un occhio terzo sia meglio, non è detto che una persona che conosce bene una lingua sia anche in grado di usarla in modo letterario. Però ho anche un’ansia di controllo molto forte. Con questa raccolta ancora non so che cosa farò, anche perché a oggi nessun editore italiano ha acquisito il libro. Ci sono degli interessi, ma vaghi. Certo, mi dispiacerebbe che non venisse tradotto proprio nel mio Paese».
Ora Francesca Marciano si sta dedicando di nuovo alla sceneggiatura. «Mi piace alternare i due lavori. Scrivere per il cinema significa stare insieme, parlare, cambiare, ripetere la storia, si è sempre in tre o quattro. La narrativa è un’attività solitaria. Nella sceneggiatura non c’è pensiero interiore, ma tutti fatti, sono due tecniche diverse». Adesso scrive con Ivan Cotroneo il nuovo film di Maria Sole Tognazzi e un altro, con Valia Santella, tratto da Pericle il nero di Giuseppe Ferrandino. «È un testo che hanno cercato di fare vari registi, ora i diritti li ha acquistati la Buena Onda di Riccardo Scamarcio e Valeria Golino. Il film lo dirigerà Stefano Mordini con Scamarcio protagonista. Poi sto lavorando a un progetto per la tv con Cristina Comencini».
Tra i suoi lavori più recenti come sceneggiatrice c’è Io e te di Bernardo Bertolucci. «Per quel film sono tornata a lavorare con Niccolò Ammaniti con cui avevo fatto Io non ho paura. Mi trovo molto bene con lui, è uno scrittore nato, non potrebbe fare altro, è così ossessionato dalle sue storie. Ma allo stesso tempo è una persona che ha una tecnica, anche con un suo testo è il primo che sa che cosa può funzionare e che cosa va lasciato cadere». Con Bertolucci era la prima volta che lavorava, invece: «Lo conosco da tanti anni ma non si era mai presentata l’occasione, è bello quando con una persona ti scopri attraverso un tavolo». Con Carlo Verdone ha scritto l’ultimo film quattro anni fa. «Sarei contenta di tornare a lavorare con lui, però io faccio due o tre cose insieme, mentre con lui serve dedizione totale». La mondanità non la attira. «Non sono una eremita ma non sono molto sociale. Frequento un gruppetto del mondo del cinema, ma è prima di tutto una questione di amicizia. È lo stesso gruppo con cui mi piace lavorare. Fare lo sceneggiatore significa avere un rapporto molto intimo con il regista. Devi capire qual è la sua voce. Se lavoro con Carlo Verdone e poi con Valeria Golino, che sono così diversi, sono io che devo avere la capacità di dare a ognuno quello che vuole».