Emanuela Mora e Silvia Mazzucotelli Salice, Corriere della Sera - La Lettura 18/5/2014, 18 maggio 2014
DAL POSSESSO ALL’ACCESSO L’ECONOMIA DELLA CONDIVISIONE
Sfoggiare per una settimana la più ricercata borsa del marchio di moda preferito (vanitylady.it); muoversi in città con la libertà di orari garantita dall’automobile, ma senza il problema di trovare il parcheggio (car2go.com; guidami, il servizio di car sharing del Comune di Milano; Uber.com ecc.); liberare il ripostiglio da quegli oggetti che si usano raramente, come il trapano o la gelatiera, prendendoli a prestito solo quando ci servono (locloc.it); visitare una nuova città accompagnati dalle dritte di chi ci vive e condivide i nostri interessi (airbnb.com; couchsurfing.org); fare nuove amicizie condividendo la passione per il cibo (gnammo.it) o per la barca a vela (sailsquare.it). Sono tutte pratiche che vengono oggi sinteticamente indicate come sharing economy .
Il concetto viene usato per lo più a indicare piattaforme digitali che favoriscono l’uso, il noleggio, l’affitto, lo scambio di oggetti, servizi, spazi, tempi. In realtà si tratta di attività che si sono sempre fatte anche senza l’ausilio del web, ma che con internet vengono modificate in modo significativo. In particolare, ciò che cambia con la Rete è l’opportunità di entrare in contatto con persone nuove, che non si sono mai incontrate — e in alcuni casi non si incontreranno mai — e fare insieme cose che richiedono fiducia reciproca. In alcuni casi la piattaforma digitale si limita a razionalizzare e a estendere il raggio d’azione dei tradizionali servizi di noleggio. In altri casi a questo servizio si aggiunge una coloritura culturale che fa leva sulla trasformazione del valore del consumo nella nostra società: dal possesso all’accesso.
Complice la crisi economica, ad alcune frange di consumatori sofisticati non pare più così necessario possedere quei beni di lusso che incarnano e manifestano il prestigio sociale dei loro proprietari. È sufficiente godere del piacere che deriva dal loro uso. È questo il caso delle piattaforme che propongono la proprietà condivisa di beni di lusso, un’evoluzione dei tradizionali programmi di multiproprietà, che fino a poco tempo fa riguardavano soprattutto le abitazioni per le vacanze e che oggi invece offrono anche la possibilità di acquistare quote di aerei, yacht, automobili... Sulle stesse piattaforme, come per esempio fractionallife.com, da un po’ di tempo a questa parte vengono proposte anche le borse must have dei marchi più esclusivi della moda globale. A dire la verità, nel caso della moda la proprietà condivisa è temporanea e non è molto diversa da un noleggio (l’espressione usata nei siti americani e inglesi, più avanti degli altri in questo settore, è rent to own , noleggiare per possedere, che sembra essere diventata una sottocategoria della fractional ownership , proprietà frazionata). Se dunque tecnicamente si tratta sempre di forme di noleggio, il significato che si attribuisce a esse è diverso: il noleggio comunicava l’impressione che il consumatore non fosse all’altezza del lusso di cui andava in cerca, vorrei ma non posso; la «proprietà temporanea» suggerisce invece l’immagine di un consumatore in movimento, che cambia al passo con le più innovative tendenze e che rinuncia a riempire la propria casa di oggetti inutilizzati per la gran parte del tempo.
Tale parabola, ormai ben consolidata soprattutto in quei Paesi, come gli Stati Uniti, in cui le persone cambiano spesso casa e città, sta prendendo piede anche in Italia, con una mappa delle attività molto articolata. Alla fine del 2013, avviando la prima ricerca nazionale sulla sharing economy , abbiamo identificato quattro aree che hanno alla base una logica comune. Le due più ampie sono quelle del baratto online (bartering ) e dei consumi collaborativi (sharing ). Coprono nell’insieme il 64% dei circa 270 casi censiti (nel grafico). È inoltre da notare che se nel 2007 la presenza di tali attività era ancora insignificante, negli anni successivi c’è stato un incremento esponenziale, tuttora in corso.
Tra i consumi collaborativi troviamo le piattaforme che noleggiano i beni di lusso, che coordinano il prestito di oggetti, che organizzano l’ospitalità gratuita o l’affitto per breve periodo di stanze o appartamenti; inoltre siti attraverso i quali è possibile individuare persone con cui condividere uno spazio di lavoro (il cosiddetto coworking ) o mettere sul mercato del consumo finale le proprie abilità per svolgere, dietro modesto compenso, piccoli lavori richiesti dagli utenti della piattaforma (taskrabbit.com). Nell’area del baratto, invece, sono presenti siti come reoose.com o zerorelativo.it che coordinano attività di baratto di oggetti usati; un’interessante galassia di micro attività nelle quali ciò che viene scambiato tra gli utenti è il proprio tempo, per farsi compagnia o per svolgere gratuitamente piccoli servizi. Tali iniziative, pur non nuove in sé, sono interessanti tentativi di fare fronte alle difficoltà economiche causate dalla crisi: da un lato permettono una più efficiente organizzazione dei servizi; dall’altro consentono di mantenere elevati standard di consumo, anche se il potere di acquisto si è ridotto. Inoltre, tutto considerato, possiamo forse azzardare che esse consentono di alimentare forme di solidarietà tra estranei che appaiono interessanti esperimenti per ricostruire legami sociali basati sulla condivisione e il riconoscimento reciproco.
Nel complesso, però, non si intravvede un vero e proprio cambiamento di paradigma economico e sociale. Certo, queste forme di sharing economy possono favorire una maggior efficienza del sistema economico e una ridensificazione dei legami sociali informali di cui da decenni denunciamo la crisi. Appunto per questo però esse rischiano di essere solo la versione più innovativa del modello di neocapitalismo liberale considerato come il responsabile della grave crisi attuale.
Le altre due aree individuate nella ricerca, vale a dire l’area dell’artigianato digitale (making ) e quella del finanziamento/progettazione collettivi (crowding ), oggi in forte crescita, sono quelle che sembrano portare con sé un potenziale di trasformazione più interessante. Esse costituiscono l’evoluzione digitale della cosiddetta economia della conoscenza. Vi includiamo le piattaforme che consentono l’incontro e la collaborazione tra progettisti (soprattutto nella moda e nel design, ma anche nelle forme più avanzate di ingegneria) che insieme concorrono alla messa a punto di progetti innovativi, ma non sempre dei prodotti finiti destinati ai consumatori finali: in molti casi essi collaborano alla progettazione di nuovi materiali — spesso derivanti dal reimpiego di materiali usati —, di macchinari per la produzione, di tecnologie o di servizi.
L’artigianato digitale in particolare riguarda quelli che talvolta vengono definiti come designer-impresa, professionisti creativi che lavorano in proprio o in collaborazione con altri, curando tutto il processo, dalla progettazione alla produzione materiale vera e propria, fino alla distribuzione, spesso diretta e online; possiamo dire che l’artigianato digitale lega il proprio potenziale di sviluppo alle forme di progettazione collettiva che in gergo vengono chiamate crowdsourcing : professionisti portatori di competenze diverse che uniscono i loro sforzi per trovare il proprio posto sul mercato e conquistarsi, spesso andandoli a cercare uno per uno, investitori e clienti.
È per esempio il caso di wemake.cc, una piattaforma digitale che ha però anche una sede fisica, dove artigiani digitali, produttori di moda, piccole imprese locali, istituzioni educative possono collaborare per creare collezioni che chiunque può scaricare (sotto forma di cartamodelli) e personalizzare. Come si sostengono economicamente iniziative di questo tipo? Una delle caratteristiche più interessanti è che intorno a esse si raccolgono micro comunità di persone, che partecipano all’impresa dando il proprio contributo creativo, pre-ordinando i prodotti proposti nella collezione, votando le proposte considerate migliori e condizionando così il successo di un designer o di una collezione (wowcracy.com), finanziando con piccole cifre i progetti più interessanti, sotto forma di investimento da cui ci si aspetta un ritorno economico, o anche nell’ottica del mecenatismo.
Dal punto di vista del modello sociale che tali attività inaugurano, diversi sono gli elementi innovativi, anche se l’ottimismo enfatico con cui esse oggi vengono spesso valutate è quanto meno prematuro. Certamente sembrano essere strumenti al servizio di un sistema industriale più sostenibile, dove le filiere sono accorciate, e molti passaggi resi più flessibili. Soprattutto, appare più lineare e trasparente il rapporto tra produttori e consumatori, che hanno trovato canali per rapporti più personalizzati. In un contesto come quello italiano, tali attività potrebbero coniugare il patrimonio culturale derivante da un sistema diffuso di piccole e medie imprese con le potenzialità di connessione e di superamento delle barriere fisiche e geografiche fornite dal web.
Il rischio, che negli Usa si sta già parzialmente presentando, è che esse si trasformino in strumenti di deregolazione e di concentrazione del potere nelle mani di pochi soggetti, detentori di ingenti risorse, perdendo così il potenziale più interessante di luoghi in cui dare nuova vita a un tessuto di relazioni dense e capaci di costruire socialità tra soggetti esclusi o tenuti ai margini dal mondo economico.