Francesco Piccolo, Corriere della Sera - La Lettura 18/5/2014, 18 maggio 2014
LA DEPRESSIONE POST PARTO DEI NEOPADRI
Ormai è un fatto noto: la depressione di padri che hanno appena avuto un figlio si avvicina al 10 per cento (con tendenza all’aumento, come dicono i meteorologi). La grande novità dei nuovi padri, quelli che si sono affrancati dalle consuetudini medievali in vigore fino a non troppo tempo fa, è anche questa. Dando una grande fiducia a questa tanto attesa evoluzione del maschio, le donne non avevano calcolato la sua capacità di esprimere soprattutto le fragilità, e di assumersi meno i compiti.
È evidente che la depressione post parto paterna si nasconda dietro la normalità, e forse si confonde con essa. Infatti, alla fine di giornate in cui si è dato il proprio contributo in modo serio e appassionato, in cui si è condiviso il ruolo accudente, arriva sempre il momento in cui, anche se il neonato è meraviglioso e voi siete raggianti di essere il suo genitore, non ne potete più. Vi siete rotti le scatole. È legittimo. Non bisognerebbe vergognarsi o sentirsi in colpa. Perché chi si vergogna o si sente in colpa, soccombe. Si deprime. E comincia a dare segnali visibili di quel sentimento generico di scontentezza che sconfina nell’angoscia che sconfina nell’infelicità. Questo sentimento si contorce pian piano su se stesso e comincia a esprimersi in modi diversi, inconsueti. Sia per le madri sia per i padri. Ma mentre per le madri la casistica della depressione post parto è stata lungamente studiata, per i padri è una disciplina nuova, tutta da catalogare.
Quindi, la questione più difficile è accorgersi della depressione post parto dei nuovi padri, che tendono a respingere l’ipotesi e sono convinti di essere soltanto un po’ nervosi, ma oggi, solo oggi, anzi stasera, ma di essere in realtà (lo giurano) profondamente felici della nuova vita e di queste meravigliose serate passate a casa con l’orecchio teso o a cambiare batterie all’interfono perché, dato che non è possibile che i figli dormano, se non si sentono urla e pianti vuol dire che le batterie sono difettose o scariche.
Però, per le compagne più preoccupate e per quelle meno accorte, ci sono una serie di segnali scientifici in presenza dei quali è necessario entrare in allarme. Si potrebbe essere in presenza di un padre afflitto da depressione post parto, se si verificano una o più delle seguenti condizioni:
Il neopadre possiede un quadernino sul quale segna, con penne di vari colori, il record giornaliero, settimanale, stagionale, di alcuni videogiochi della playstation.
Diventa amico fraterno, e insiste per organizzare la vacanza estiva con gente che non ha mai visto, conosciuta giocando su ruzzle o nei videogiochi di ruolo.
Una sera, e poi un’altra e ancora quella successiva, comincia a fare discorsi filosofici complicatissimi sulla necessità di non chiudersi in un mondo isolato, di non stare sempre a casa tutti e tre, di comunicare con gli altri. Porta a supporto della tesi citazioni colte, aforismi, esperienze di vita. Alla fine, prega di dire sì a quell’invito, almeno una volta, portiamo anche il bambino. Così, ci si ritrova a cene a casa di amici che fumano ininterrottamente, dicendo mica ti dà fastidio se fumo? E dicendolo in un modo che non ammette risposte negative. Il bambino intanto strepita al buio di una camera da letto sconosciuta. Lui dice: strano non fa mai così, deve essere la colica.
Dice la parola colica fino a 547 volte al giorno, l’ottanta per cento delle quali assolutamente a sproposito.
Ritiene fondamentale possedere il decoder Sky con il quale registra tutto quello che è possibile registrare. Se qualcuno si avvicina al decoder, simula un infarto, oppure qualche volta ha davvero un infarto. Lo spolvera ogni giorno, qualche volta lo accarezza, dicendogli delle paroline dolci che forse con il neonato non ha ancora adoperato. Dovesse portarselo a letto e dormire abbracciato con quello, l’allarme deve scattare immediatamente.
Ha gli occhi fissi sul telefonino perché risponde contemporaneamente a proposte di aperitivi, proposte erotiche pesanti, organizzazioni complicate di tornei di calcetto. E deve scusarsi con il compagno di videogiochi ma purtroppo hanno altri impegni per questa estate.
Fa sempre finta di non accorgersi che il neonato ha — come si dice solo per i neonati — fatto la cacca. In quel momento è molto distratto e impegnato in qualcos’altro, passa alla larga, segue le mosse della madre, la spinge ad avvicinarsi al neonato. Se la tecnica riesce, la madre dirà: «Mi sa che ha fatto la cacca». C’è una regola non scritta: chi se ne accorge, lo deve cambiare. Non si sa perché c’è questa regola, ma c’è. Per questo il padre depresso fa finta di non accorgersene. Ci sono casi in cui tutti e due i genitori adoperano la stessa tecnica. Sono momenti molto difficili, soprattutto per il neonato. Le strategie di movimento casalingo si fanno complicate. Anche perché succede un altro fatto strano, nei genitori: spesso, si stancano contemporaneamente. Sarebbe semplice se le energie e le capacità fossero distribuite a turno durante il giorno (e la notte); ma non è così. Quando il padre si rompe le scatole del proprio figlio, di solito si rompe le scatole anche la mamma. Chissà perché.
Dopo il primo periodo di entusiasmo e intraprendenza, il padre depresso comincia a mostrarsi incapace di fare qualsiasi cosa bene. Di sentirsi molto in difficoltà nel cucinare il brodino, nel cambiare la tutina, nell’addormentarlo nella culla. Mostra molta buona volontà, mostra che non vorrebbe fare altro, ma poi dice con senso di sconfitta e impotenza: «Non ci riesco, mi aiuti?», «Mi fai vedere come si fa?». È una tecnica sofisticata, che soltanto qualcuno arrivato allo stremo dei nervi può adottare: bisogna essere esasperanti, incalzare, chiedere soccorso di continuo. Ci vuole un po’ di pazienza, ma alla fine la praticità vince: e la madre ti chiede di levarti, che fa lei, anche perché fa prima. E in quel momento lui dice: «Ma no, mi dispiace, fammi provare, è che non sono ancora bravo...». E se ne va di là a guardare la televisione e a registrare altri programmi ancora, convinto che potrebbe succedere di non uscire mai più da casa, di non potere andare mai più a fare un aperitivo.
La parola che il padre afflitto da depressione post parto pronuncia di più, anche più di «colica», è «aperitivo». All’improvviso, ritiene l’aperitivo un fondamento delle relazioni umane. Parla dell’agorà, della necessità del dialogo, ritiene l’aperitivo fondamentale per i suoi rapporti di lavoro, per le opportunità future, per l’equilibrio della mente. Qualche volta si mette a piangere, se le circostanze gli impediscono di uscire in tempo per un aperitivo già concordato.
Lo si può individuare facilmente anche nel luogo degli aperitivi. Indossa camicie sgargianti, che qualche volta si possono definire senza esagerazione: hawaiane. È particolarmente interessato alle giovani donne di circa venti anni. Muove la testa al ritmo della musica, ride sguaiatamente, si diverte moltissimo, ed è il primo ad alzare le braccia e a muovere il bacino quando si decide di improvvisare un ballo ubriachi. Allo stesso tempo, guarda di continuo l’orologio e sospira ogni volta che vede l’ora. Molte delle persone presenti all’aperitivo lo definiscono: scatenato; le ventenni: scemo.
Usa subdolamente — e quasi sempre con successo — la teoria che i neonati siano molto legati alla figura materna. Prova a dire che ha letto su una rivista scientifica inglese che è così fino a nove anni, e odia essere smentito.
Sa comunque che la madre del figlio in comune è molto sensibile a una frase che costituisce la tecnica di tutte le tecniche di deresponsabilizzazione: «Vuole te».
«Vuole te», pronunciato con intenzione e uno sguardo ipocrita che esprime senso di frustrazione per la consapevolezza di dover aspettare anni (non erano nove? a me sembrava di aver letto nove...) prima di entrare per davvero nel cuore del proprio figlio. «Vuole te», allungandole il neonato per piantarglielo in braccio. «Vuole te» rende la madre vulnerabilissima, per il semplice fatto che non importa che sia vero o no: lei ci crede. E ci crede perché non desidera altro che questo: che il figlio voglia lei. La madre si commuove, apre le braccia e accoglie il neonato come farebbe una divinità salvifica e mentre lo consola e lo vezzeggia, lo cambia o lo fa mangiare o lo fa addormentare, il padre è libero di giocare alla playstation, di mandare messaggini a tutta l’umanità, di appoggiare teneramente la guancia sul decoder, di uscire a fare due passi.
È capace di dire, una sera in cui è più depresso del solito: forse non ci amiamo più. Si dichiara disposto a prendersi un periodo di riflessione, ad andare via di casa, mentre piange abbracciato per ore con la compagna. Tutto questo per soddisfare un desiderio futile, tipo andare a vedere la partita a casa di un amico, o a fare aperitivi appunto. Dopo, torna a casa dicendo che ci ha pensato e che bisogna riprovarci, perché ci amiamo troppo.
Annuncia che sta scrivendo racconti o romanzi erotici. Non sente mai che il bambino sta piangendo. Però dice che lo ha sentito, certo, ma lo sta lasciando piangere per una questione educativa. «Piangere un po’ gli farà bene».
Dice spesso: come? Non ho capito. Perché stava pensando ad altro.
Al parco tiene gli occhi fissi nel vuoto mentre spinge un bambino troppo piccolo per stare sull’altalena, e tutti gli altri genitori guardano la scena come se fosse un thriller mozzafiato.
È felice, anzi raggiante, solo il giorno dell’inaugurazione di un nuovo canale satellitare.
Alle feste dei bambini, mangia tutte le pizzette e i panini che ci sono, e spesso anticipa un bambino perché sta per afferrare l’ultima fetta di torta.
Guarda a lungo suo figlio nella culla e intanto calcola quanti anni avrà quando il figlio compirà dieci anni, quando ne compirà diciotto, trenta. Si avvilisce molto.
Aspetta sotto casa una di quelle ventenni che ha conosciuto all’aperitivo e le si inginocchia davanti dicendo che è la donna della sua vita, che ha già lasciato casa, che dorme in macchina da tre giorni, che vuole sposarla appena ottiene il divorzio.
Poi torna a casa, ricordandosi di comprare prima il latte.
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La depressione (quella vera) dopo un figlio può colpire anche i padri e non solo le madri, come ben noto e documentato. La conferma più recente arriva da uno studio della Northwestern University di Chicago, pubblicato sulla rivista «Pediatrics». Secondo la ricerca, condotta su 10.623 uomini, i sintomi depressivi aumentano in media del 68% durante il primo anno di paternità, quando questa arriva intorno ai 25 anni. Indagini precedenti avevano già mostrato che i padri depressi sono più inclini alle punizioni corporali nei confronti dei bambini, che interagiscono meno con i figli e che sono più facilmente stressati e negligenti nei confronti della prole. I figli dei padri depressi hanno maggiori rischi di avere difficoltà nell’apprendimento linguistico e nello sviluppo dell’abilità di lettura, oltre a maggiori problemi di comportamento. «Noi sapevamo che la depressione paterna esisteva — ha sottolineato Craig Garfield, primo firmatario dell’indagine — e anche che aveva queste ricadute sui bambini». «Questo studio su grandi numeri ora ci conferma che se un giovane padre è incline a umore triste, ad ansia o è incapace di gioire per la sua nuova condizione, va incoraggiato a farsi aiutare».