Gianluca Didino, Doppiozero.com 14/5/2014, 14 maggio 2014
SALINGER O DELLE CAUSE UMANE E ARTISTICHE
Ci sono voluti nove anni di lavoro al critico letterario David Shields e allo sceneggiatore cinematografico Shane Salerno per portare contemporaneamente in libreria e al cinema la mastodontica biografia di Jerome David Salinger la cui versione italiana è stata pubblicata pochi giorni fa da ISBN (Salinger. La guerra privata di uno scrittore, Traduzione: Lorenzo Bertolucci, Paolo Caredda € 49,00, pp. 750): nove anni di interviste a personaggi famosi e non, scrittori, attori, giornalisti, ex compagne ed ex commilitoni dello scrittore newyorkese diventato famoso in tutto il mondo con Il giovane Holden nel 1951 e morto a novantun anni nel 2008. Salinger è stato, com’è noto, il primo e forse il più famoso dei grandi reclusi della letteratura americana del Novecento, capace di isolarsi nel suo cottage-bunker di Cornish, nel New Hampshire, dalla metà degli anni Cinquanta fino al giorno della sua morte, rilasciando pochissime interviste e avvolgendo la sua esistenza nel mistero. Soprattutto, dopo lo straordinario successo del romanzo d’esordio e delle successive raccolte di racconti (Nove racconti, 1953; Franny e Zooey, 1961; Alzate l’architrave carpentieri e Seymour. Introduzione, 1963), dal 1965 Salinger ha smesso completamente di pubblicare, rimanendo in silenzio per oltre quarant’anni durante i quali si è dedicato alla pratica del buddismo vedanta, una delle sei scuole ortodosse della religione induista. L’interesse che ha recentemente investito la sua figura (con la pubblicazione in Italia di una nuova traduzione del Giovane Holden a cura di Matteo Colombo per Einaudi) deriva dal fatto che in questo quarantennio di silenzio Salinger non ha mai smesso di scrivere, e che il materiale inedito sarà pubblicato dalla Fondazione Salinger che lo amministra tra il 2015 e il 2020 seguendo la cronologia imposta dall’autore.
Probabilmente il pregio principale del lavoro di Shields e Salerno è quello di aver voluto restituire complessità a un personaggio che il rifiuto della fama ha trasformato in un mito, inevitabilmente appiattendone le asperità: la fuga non solo dalla celebrità ma anche dal proprio mestiere di scrittore e infine (tramite la religione buddista) dall’Occidente, cementati in quarant’anni di gossip più o meno ammantato di intenti culturali, hanno il potere di ridurre anche la figura più sfumata a una silhouette nera stagliata troppo nettamente nel controluce di una scelta di vita radicale. Al contrario Salinger era un personaggio estremamente contraddittorio, e proprio in questa contraddizione che è insieme letteraria e umana si cela forse la magia delle sue prime prove letterarie, prima che l’affiliazione religiosa rendesse la sua scrittura uno strumento al servizio della spiritualità e non un fine estetico. L’importanza del Giovane Holden, ad esempio, è capitale da un punto di vista che travalica anche la storia della letteratura: pubblicato nel 1951, è il primo romanzo generazionale e anticonformista che pone al centro del proprio discorso (e del discorso sociale) la giovinezza, anticipando di sei anni la cultura beatnik (Sulla strada di Kerouac è del 1957) e di quasi quindici anni la rivoluzione culturale e sessuale degli anni Sessanta: non stupisce quindi che sia tuttora considerato da molti come il vero spartiacque della letteratura americana contemporanea, il vero passaggio dal modernismo che aveva caratterizzato gli anni delle guerre mondiali al postmoderno dell’epoca di pace. Laddove si era fermato Hemingway, che Salinger aveva conosciuto in Europa nel 1944, Holden Caulfield aveva cominciato un cammino che oggi con ogni probabilità non si è ancora concluso.
Proprio all’esperienza della Seconda guerra mondiale Shields e Salerno fanno infatti risalire la potenza della voce letteraria che, nell’America conformista degli anni Cinquanta, avrebbe affascinato milioni di giovani per fare del Giovane Holden uno dei libri più venduti di sempre. Salinger, arruolatosi volontario nell’esercito dopo Pearl Harbour e assegnato a un corpo di controspionaggio, fu infatti testimone di alcune delle più violente azioni dell’offensiva alleata in Francia, Belgio e Germania: fu presente allo sbarco in Normandia durante il D-Day (6 giugno 1944), alla liberazione di Parigi (25 agosto 1944), all’offensiva delle Ardenne (inverno 1945) e alla liberazione di Kaufering IV, un satellite del campo di concentramento di Dachau (aprile 1945): nel lungo dipanarsi di questi orrori furono scritti i primi sei capitoli di quel romanzo erroneamente considerato come una storia adolescenziale e che David Shields ha l’intuizione di considerare un romanzo di guerra a tutti gli effetti. Dopo aver scoperto in prima persona le atrocità naziste Salinger, rampollo ventenne di una famiglia ebrea alto-borghese di Manhattan, privo di preoccupazioni economiche e con una vaga volontà di dedicarsi a fare l’attore cinematografico, si fece ricoverare in un ospedale psichiatrico di Norimberga per quello che allora veniva genericamente definito un disturbo post-traumatico da stress. Quello che tornò a New York l’anno successivo, sposato con una donna che si fingeva francese ed era probabilmente un’informatrice tedesca della Gestapo, non era più lo stesso uomo. Da qui Shields e Salerno traggono la conclusione che fa da spina dorsale al libro, e che ne fornisce di fatto l’unica possibile interpretazione: «La guerra distrusse l’uomo Salinger, ma lo rese un grande artista. La religione gli fornì il conforto di cui aveva bisogno come uomo, ma uccise la sua arte».
Da questo momento in poi il progressivo isolamento di Salinger, prima fisico nel cottage tra le montagne di Cornish, poi anche emotivo dopo il divorzio dalla seconda moglie Clair Douglas e infine letterario con l’ultima pubblicazione del racconto Hampworth 16, 1924 sul «New Yorker» assume due direzioni principali: da un lato la scoperta della religione vedantica che finirà per assorbirne completamente le energie creative, e dall’altro le relazioni con una serie di ragazze adolescenti con cui Salinger intrecciò per tutta la vita rapporti in costante bilico tra la fascinazione letteraria (il suo primo amore Oona O’Niell era figlia del drammaturgo e premio Nobel Eugene O’Neill e finirà per sposare Charlie Chaplin, più vecchio di lei di quarant’anni; la quindicenne Jean Miller fornirà il modello per la protagonista di Per Esmè: con amore e squallore; la scrittrice Joyce Maynard vivrà per anni a Cornish con Salinger, lei diciottenne e lui superata cinquantina) e legittimi sospetti di pedofilia: Salinger, la cui vita emotiva si era interrotta prima della guerra, e per cui secondo Shields dopo il 1945 «tutti i corpi sono cadaveri», aveva inventato il giovane come figura letteraria per sfuggire allo sfacelo e alla distruzione, e rifiutava serialmente la compagnia delle ragazze che frequentava man mano che queste diventavano donne (lo stesso fece con sua figlia Margaret). Della religione Shields e Salerno non si curano molto, ed è un punto su cui torneremo. Questa «patologia» della giovinezza viene inserita nel quadro generale dell’interpretazione che i due autori danno della parabola umana di Salinger, e questo mette in luce un aspetto peculiare del procedimento intellettuale alla base della biografia.
Contrariamente a quanto succede solitamente in casi analoghi, il libro Salinger segue l’uscita nelle sale del film, di cui costituisce in qualche modo l’ampliamento: da qui la scelta di comporre la biografia come un insieme di citazioni come accadrebbe in un documentario, affidando agli autori il compito della voce-off di legare con brevi considerazioni il materiale (testuale ma anche visivo) raccolto. Questa giustificazione strumentale trova tuttavia una interessante corrispondenza nel lavoro più noto di David Shields, il saggio di critica letteraria Fame di realtà (Fazi, 2010), composto a sua volta da un’insieme di citazioni raccolte e rielaborate dall’autore e di cui soltanto una piccola parte andavano attribuite alla sua voce originale. L’adozione in Fame di realtà di questa forma aveva un chiaro fine argomentativo: tra le posizioni centrali portate avanti dal libro c’era infatti quella della (postmoderna) rinuncia all’originalità del lavoro letterario, e del conseguente sfumare dei confini tra la fiction e ciò che un po’ ingenuamente in tempi di ipermediazione ci ostiniamo a chiamare realtà. In altre parole Fame di realtà giocava efficacemente con il proprio linguaggio facendo scomparire e apparire in trasparenza la figura del critico letterario: se la voce di Shields sembrava dissolversi nella caleidoscopica ricchezza delle citazioni, tuttavia ricompariva con maggiore forza proprio perché definiva come incerta, o inessenziale, la presenza di una personalità dietro la citazione. Eclissandosi nell’anonimato, Shields si rivelava in quel libro un autore molto più presente, e dunque molto più capace di influenzare il materiale della propria analisi, di un tradizionale critico letterario che argomenti una tesi in prima persona.
Come forse è ovvio che sia (ma come è meno immediato capire poiché non si tratta di un testo di critica letteraria d’avanguardia ma apparentemente di una "semplice" biografia), Salinger funziona nella stessa maniera. Shields e Salerno compaiono sporadicamente come una voce tra le tante che compongono la costellazione di parole e opinioni a volte contraddittorie che definiscono i confini dell’uomo e dello scrittore Salinger. Da un lato i due autori mettono di fronte al lettore una grande massa di dati, impressionante non solo per la quantità ma anche per la qualità delle interviste, per le personalità intervistate, per la rarità e la strabiliante bellezza del materiale visivo raccolto, che dalla Seconda guerra mondiale alle copertine del «Time» attraversa cinquant’anni di storia culturale americana. Dietro a questi dati la figura del biografo sembra eclissarsi: non c’è un io narrante che traccia un percorso, ma una miriade di punti di vista discordanti che vanno a costituire la complessità di cui Salinger, come forse ognuno di noi, era composto. Dall’altro lato però Shields e Salerno si rivelano fin troppo consapevoli del proprio ruolo, non solo nell’affermazione ripetuta del carattere innovativo della biografia (non a caso presentata come «biografia definitiva» dello scrittore), ma soprattutto nella riproposizione della chiave di lettura che guida il lavoro dalla prima riga all’ultima, senza il dubbio di un’eccezione: «La guerra distrusse l’uomo Salinger, ma lo rese un grande artista. La religione gli fornì il conforto di cui aveva bisogno come uomo, ma uccise la sua arte».
Dal 1965 al 2008 la vita di Salinger viene vissuta sempre più lontano dalle telecamere e dalle penne dei giornalisti, privata di documentazione dalla decisione di non pubblicare e di testimonianze dalla cortina di omertà che gli si chiude intorno da parte di parenti, amici e concittadini di Cornish. Quando dagli anni Ottanta in poi questa cortina si rompe ciò che ne fuoriesce sono voci di persone ferite, che com’è naturale leggono la vita e l’opera di Salinger dal loro personale punto di vista: Mark David Champan, che uccise John Lennon una sera di dicembre del 1980 dicendo di essersi ispirato al Giovane Holden; Joyce Maynard, che dalle conseguenze della relazione con Salinger sarebbe riuscita a uscire solo a quarant’anni grazie a un libro autobiografico; e la figlia Margaret, autrice nel 2001 del memoir Dream Catcher dedicato appunto al rapporto tutt’altro che idilliaco con il padre. In questo silenzio interrotto da voci ognuna a modo suo estreme, è significativo che così poco spazio venga dedicato nella biografia di Shields e Salerno a ciò che sappiamo per certo riempì questo quarantennio: la religione. Nel finale del lavoro i due autori riassumono la parabola umana di Salinger in un decalogo di «patologie» tra cui compaiono anche il distacco mistico e la religiosità buddista. Alla base della patologizzazione della religione c’è l’idea per cui il valore artistico dell’opera dello scrittore è più importante del (presunto) raggiungimento della serenità da parte dell’uomo: un pregiudizio che molti di noi sarebbero pronti a sottoscrivere, e che non stupisce in un critico letterario. Tuttavia non è l’unica posizione possibile. Uno scrittore più aperto ai temi della spiritualità come Emanuel Carrère, ad esempio, aveva manifestato una posizione decisamente più morbida nei confronti delle derive cristiane di un altro autore in cui arte e religione venivano spesso a confluire, Philip K. Dick, la cui vita aveva trattato in Io sono vivo e voi siete morti (Theoria, 1995). Questo non toglie valore al lavoro di Shields e Salerno, ma rende necessaria una precisazione.
Salinger è, contemporaneamente, due cose. Un’accuratissima, documentatissima biografia dell’uomo Jerome David Salinger e un’analisi approfondita non solo della sua opera straordinaria ma anche delle cause umane e artistiche che hanno portato al dissolversi di quest’opera straordinaria nel silenzio. Tuttavia non è da nessun punto di vista una biografia oggettiva, perché in secondo luogo (e consustanzialmente) è anche il nuovo tassello del percorso artistico e critico di David Shields, che prosegue portandolo per certi versi all’estremo il discorso già iniziato in Fame di realtà sul rapporto tra documento e narrazione. Non è solo un archivio ma anche la storia dell’archivista: quello che ci dice riguarda in parte la Storia, con la esse maiuscola, e in parte una storia più piccola e personale ma non per questo trascurabile. Si può obiettare che ogni biografia è al contempo due biografie, quella dell’oggetto della biografia e quella del soggetto autore della biografia, ed è vero; ma come già in Fame di realtà l’effetto persuasivo della voce di Shields (e in questo caso anche di Salerno) viene amplificato anziché ridotto dalla rinuncia alla tradizionale argomentazione fondata sulla discussione di una tesi da parte di un soggetto definito. Questo non toglie nulla alla biografia, che forse non sarà «definitiva» ma è certamente un lavoro di grande valore intellettuale, storico e critico. Aggiunge semmai un tassello in più, fatto tanto di opere quanto di omissioni, nel carattere fin troppo esplicito di certe tesi come nel caso del decalogo finale e nel peso di grandi assenze (l’infanzia di Salinger, il suo rapporto con i genitori, la religione).
Considerarla come un semplice lavoro di raccolta e studio del materiale significherebbe mal interpretarla, correndo il rischio di farla cadere in una contraddizione: quella di sostituire il vecchio luogo comune del Salinger scrittore geniale e recluso con il nuovo luogo comune del Salinger scrittore geniale costretto al silenzio dalla religione vedantica, costringendo tutta la complessità umana e letteraria in una forma sicuramente più raffinata e al passo con i tempi, ma altrettanto angusta. Cancellando l’essenziale ambiguità del proprio oggetto d’analisi si rischierebbe di cancellare anche l’essenziale ambiguità del lavoro, che concerne ogni biografia (lo studio di un uomo su un uomo) e forse anche l’ambiguità del ruolo del critico letterario. Che è poi il lavoro di Shields, e un lavoro che sa fare benissimo.