Massimo Gaggi, Corriere della Sera 18/5/2014, 18 maggio 2014
«TRASFORMARE INTERNET IN UNA RETE DI SORVEGLIANZA UCCIDE LE NOSTRE LIBERTÀ»
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — «Oltre al potere sterminato e incontrollabile che dà a una nazione, la cosa più spaventosa del sistema di sorveglianza senza limiti messo in piedi dall’Nsa, la centrale dello spionaggio Usa, è la demolizione della nozione stessa di privacy », dice Glenn Greenwald che incontro a New York. «E la privacy , il diritto alla riservatezza, non è certo un optional, come anche le aziende della Rete vogliono farci credere, ma un ingrediente essenziale delle nostre libertà, della formazione della nostra personalità. Se la perdiamo, veniamo privati di un diritto essenziale ma anche della capacità di sperimentare, di esplorare noi stessi, di comportarci spontaneamente. Se saprai di essere costantemente sotto controllo non farai nulla di tutto questo. Sorvegliare a tappeto non solo dà un potere immenso e pericolosissimo a chi controlla il sistema, ma uccide anche la creatività».
Per un anno intero le rivelazioni sul funzionamento e l’estensione della rete di intelligence americana e sulla scelta di raccogliere tutti i dati che la tecnologia consente di raggiungere e non solo quelli realmente essenziali per le indagini in corso, hanno fatto rumore in tutto il mondo. Mentre il governo Usa cercava invano di bloccare Edward Snowden, la fonte di questo stillicidio di informazioni trafugate negli anni in cui lavorava per i servizi segreti, Barack Obama è stato costretto ad ammettere che nell’era di «big data» i confini dello spionaggio possono essersi dilatati oltre il necessario: si è scusato, ha cercato di rassicurare gli alleati finiti anche loro sotto sorveglianza e ha avviato una revisione dell’intera materia.
Non per questo, però, gli Usa hanno smesso di ricercare Snowden, rifugiatosi prima a Hong Kong poi in Russia, da dove ha reso pubblico il contenuto dei file sottratti agli archivi della National Security Agency. Servendosi, per questo, del lavoro di Glenn Greenwald, originale figura di avvocato, giornalista e attivista di battaglie per i diritti civili condotte sempre cavalcando una linea radicale. Per Snowden, che lo ha studiato a lungo, Greenwald era la persona giusta: coraggioso, ostinato, capace di evitare trappole e infortuni legali. I tentativi di raggiungerlo in tutta segretezza, i primi approcci, i racconti rocamboleschi dei loro primi incontri a New York danno un ritmo da thriller alla prima parte di Sotto Controllo , il libro appena pubblicato da Glenn (in Italia edito da Rizzoli).
Il titolo originale, No place to hide , nessun posto in cui nascondersi, dà l’idea di una condizione nella quale nessuno di noi può sottrarsi a una sorveglianza permanente, preso com’è in una rete che ha occhi ovunque: Internet, telefonini, telecamere nelle strade, nei negozi, negli uffici, negli ascensori, dati delle carte di credito, navigatori satellitari. Anche per questo Snowden ha scelto di rivelare sin dall’inizio la sua identità, cercando rifugio in Stati che non lo avrebbero estradato negli Usa. Per molto tempo anche Greenwald, che è americano ma vive a Rio de Janeiro, ha evitato di tornare nel suo Paese temendo di essere arrestato. Di recente si è, però, convinto che non sarebbe stato perseguito per la sua attività giornalistica, che negli Usa gode di una speciale protezione costituzionale. Così è rientrato per presentare un libro che, oltre al fascino di una narrazione da «spy story» e alla denuncia della pervasività dello spionaggio, ha il valore storico della ricostruzione dettagliata e con mille retroscena di una vicenda che sta cambiando i rapporti tra gli Stati e costringe chi utilizza Internet, e tutto il mondo dell’informazione, a fare i conti in modo nuovo con l’universo di «big data».
Oltre che con l’Nsa, lei è molto duro anche con le imprese di Internet: si dicono vittime, costrette dalla legge a collaborare con l’intelligence, mentre secondo lei sono complici.
«Ho dedicato quasi tutto il quarto capitolo a questo. Collaborare non era obbligatorio. Basta vedere Twitter, che si è rifiutata. La verità è che — un po’ per un malinteso patriottismo, un po’ per convenienza — hanno scelto di collaborare. È nella loro logica. Pensi alla privacy. Per Mark Zuckerberg non è più una norma sociale, è un concetto obsoleto nella società dell’informazione. Mentre secondo Eric Schmidt, “se c’è un’azione che vuoi compiere senza essere visto, forse è meglio che non la fai”. È falso, così uccidi la libertà dell’individuo e la sua creatività. È contrario allo spirito di Internet: trasformare la rete in un sistema di sorveglianza significa stroncare il suo potenziale più prezioso. E i primi a saperlo sono i capi di Facebook e Google che difendono con grande determinazione la loro privacy come dimostrato da tanti episodi, alcuni citati nel libro».
Anche queste aziende hanno una enorme capacità di raccogliere dati. E non sono sottoposte a controlli. Non devono riferire al Congresso. In «The Circle», l’ultimo romanzo di Dave Eggers, l’occhio che spia tutti non è più lo Stato come in «1984» di Orwell, ma un’azienda.
«Potere politico e potere economico convergono nel cercare di convincerci che la riservatezza non conta. È molto pericoloso. Sulla raccolta di dati, però, c’è una differenza: se usi Facebook e poi fai una ricerca su Google, mandi una mail con Yahoo! o hai una chat su Skype, Facebook non ha accesso ai dati. Solo l’Nsa arriva dappertutto».
Nel libro c’è qualche rivelazione in più. Forse quella che colpisce di più è la storia di server, router e altri sistemi di rete esportati dagli Usa.
«Sì, attrezzature che vengono intercettate e modificate mettendoci dentro un’apparecchiatura di sorveglianza. E poi di nuovo sigillate, così il destinatario non si accorge di nulla».
Le aziende fornitrici americane erano consapevoli delle manipolazioni dello spionaggio?
«Non lo sappiamo. I documenti che abbiamo non dicono nulla in proposito. Cisco, una delle aziende che esportano questi sistemi, si dice all’oscuro. Quello che è più curioso è che il governo Usa prima ha scoraggiato l’uso dell’elettronica cinese temendo inquinamenti del loro spionaggio, poi si è comportato nello stesso modo».
L’America, che difende le libertà essenziali e i diritti umani assai più di altre potenze e regimi autoritari, deve proteggere il primato con la tecnologia digitale che è l’unico vantaggio di cui dispone, dice chi sostiene la legittimità dell’uso dello spionaggio informatico.
«Non credo che tutto questo apparato possa essere giustificato con la sorveglianza della Russia, della Cina o dell’Iran. Intanto perché il sistema è in gran parte domestico, rivolto verso cittadini americani. Un apparato gigantesco, che costa 75 miliardi di dollari l’anno. Oltretutto è un sistema che indebolisce protocolli e sistemi di crittaggio creando varchi che possono essere sfruttati da agenti esterni, anche hacker cinesi e russi».
Lei critica Obama, dice che non si vedeva niente di simile dai tempi di Nixon, se la prende con le prudenze del «New York Times», ha nostalgia dell’era di Daniel Ellsberg, il suo eroe, quando i «Pentagon Papers» venivano pubblicati senza reticenze. Ma quelli — parliamo del 1971 — erano tempi diversi: non c’erano la minaccia del terrorismo, il mondo frammentato e sempre più ingovernabile di oggi, né la disponibilità di tecnologie così pervasive.
«Non penso che le minacce di oggi siano superiori a quelle che gli Usa dovevano fronteggiare quando Ellsberg consegnò al New York Times quei documenti sconvolgenti. Allora l’Urss, con migliaia di missili balistici puntati sull’America, rappresentava la minaccia più potente della storia umana. E anche il terrorismo, da quello palestinese dell’Olp all’Ira, era già molto attivo».
Lei ha lasciato il giornalismo dei «mainstream media» per passare a una sua piattaforma digitale nel nuovo gruppo creato da Pierre Omydiar. Un giornalismo di impatto più forte ma a senso unico, dicono i suoi critici. Lei attacca la stampa tradizionale che giudica troppo prudente, deferente col potere. Ma un giornale cerca di dare una visione bilanciata della realtà. Cosa la spinge a giudicare codardi organi che sono sempre stati considerati una garanzia di libertà?
«La stampa è impaurita, è diventata reticente. Anche quando denuncia gli scandali dello spionaggio lo fa in modo involuto, poco comprensibile, con mille distinguo. Ci sono vari motivi. Le cose sono cambiate dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre. Una pressione che ha spinto ad adottare uno stile più patriottico. Poi, negli ultimi 20-30 anni, siamo passati dal giornalismo delle famiglie di editori puri a quello di corporation che gestiscono anche altri business e hanno un interesse prioritario a mantenere buoni rapporti col governo».
Lei a suo tempo si è scontrato con Bill Keller sul futuro del giornalismo: ne venne fuori un dibattito al quale il «Corriere» dedicò molta attenzione. Il successore di Keller alla guida del «New York Times», Jill Abramson, anche lei finita sotto i suoi strali, è stata appena licenziata.
«Per me è un’altra prova che la stampa è su una brutta china. Anche se l’ho criticata, Jill aveva la sana abitudine di considerare quello tra il giornale e il governo come un rapporto conflittuale, tra avversari. E stava cercando di portare nella cabina di regia un’altra giornalista aggressiva come Janine Gibson. Credo che con il nuovo direttore, con il quale ho avuto in passato diversi incidenti — storie che non sono state pubblicate perché davano fastidio al governo — ci sarà maggior sottomissione al potere».