Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 18/5/2014, 18 maggio 2014
ELOGIO (FUORI MODA) DELLA PAZIENZA
Mai aspettare il tempo necessario, ma reagire d’impulso: l’impazienza è un vizio tipico della nostra epoca. Per questo, l’elogio del suo opposto, la pazienza, suona particolarmente opportuno. Anche se, o forse perché in controtendenza. Sarebbe un errore confondere la pazienza con l’inerzia. La pazienza è una giusta via di mezzo tra l’impazienza e l’apatia. È una virtù dei forti. Richiede di agire «come se tutto accadesse al termine di una gravidanza». È questo il consiglio. Perché il tempo naturale è quello della pazienza.
Abbiate pazienza. Lo diceva anche Franz Kafka, che pure non aveva mai conosciuto l’epoca dell’alta velocità, della rapidità diventata programma politico, della fretta di realizzare programmi messi insieme all’ultim’ora, del botta e risposta in tempo reale, delle mail e delle connessioni istantanee, del fastfood. «Ci sono due peccati capitali dell’uomo, da cui derivano tutti gli altri: — scrive lo scrittore praghese nei suoi Aforismi — impazienza e inerzia. A causa dell’impazienza sono stati cacciati dal paradiso, a causa dell’inerzia non tornano». Poi si corregge e precisa: no, il peccato capitale è uno solo: l’impazienza. È evidente che l’impazienza è una questione di tempo, per non dire di tempistica. Nasce da un desiderio che pretende immediata soddisfazione. È la ragione per cui gli esseri umani sono stati cacciati dal paradiso. Mai aspettare il tempo necessario, ma reagire d’impulso, bruciare ogni esperienza in un attimo: è un vizio tipico della nostra epoca, per questo, l’elogio del suo opposto, la pazienza, tessuto dalla saggista e filosofa Gabriella Caramore (è anche conduttrice del programma di Radio RaiTre «Uomini e profeti») in un libro omonimo (appena uscito dal Mulino) suona particolarmente opportuno. Anche se, o forse perché in controtendenza.
Un invito a fermarsi, proprio in un momento in cui la velocità sembra essere diventata una qualità in sé, facendo trionfare l’ansia, l’accelerazione quotidiana, l’indistinzione. Sarebbe un errore confondere la pazienza con l’inerzia. Niente di più sbagliato. La pazienza è una giusta via di mezzo tra l’impazienza e l’apatia, è l’esigenza di «creare un tempo separato dal tempo ordinario» per costruire qualcosa, di «attendere che il vissuto venga accolto dentro il pensiero, prima di essere partorito dalla mano; venga elaborato, fantasticato, reinventato dentro l’“anima”, se ce n’è una». Homo sapiens, homo patiens è un bell’anagramma che dice tutto, o dovrebbe. A proposito di mano: pensate alle dita che aggrediscono la tastiera agitate dalla frenesia di rispondere a un messaggio o a un post. I social network sono lo spazio dell’impazienza, sono concepiti perché la mano arrivi prima del pensiero, perché l’amicizia nasca prima della conoscenza, perché alla fatica paziente di conoscere si sostituisca il contatto fuggevole. La logica è quella del tutto-subito: intervenire su qualsivoglia argomento senza necessariamente averne la competenza maturata con lo studio.
Un grande poeta francese, Philippe Jaccottet, individua nell’arte di Giorgio Morandi una luce «ad un tempo interiore e distante» che potrebbe definirsi come un’«infinita pazienza»: è il segreto dell’opera d’arte. Non c’è arte senza maturazione che chiede cura e attenzione. Un detto arabo ci ricorda che mentre il cavallo corre veloce, il cammello procede lentamente ma avanza notte e giorno. Associata generalmente (e a torto) a un’indole saturnina, nella sua tonalità passiva e forse depressiva, la pazienza (derivante dal greco pathos o pathein , nel significato di «passione» o «patire») non è sinonimo esatto di sopportazione malinconica. Niente di passivo. L’esempio massimo dell’eroe paziente è Ulisse, colui il quale più di tutti, nel desiderio ostinato (e paziente) del ritorno in patria, sperimentò l’arte dell’esplorazione, dell’astuzia e della conoscenza: un maestro del trattenere gli impeti del cuore, un eroe dell’attesa del momento propizio. In molte circostanze il suo animo geme e si lamenta, il cuore gli urla in petto, ma la sua intelligenza gli suggerisce di tenere a bada l’«ira funesta». Ricomparso a Itaca sotto mentite spoglie, di fronte ai soprusi dei Proci Ulisse «non può concedersi la scorciatoia della risposta immediata — scrive Caramore —. Si frena, aspetta, veglia, ascolta. S’improvvisa analista dei suoi propri sentimenti». La pazienza diventa una forma di resistenza e di coraggio: il coraggio di tollerare il dolore, la sopraffazione, la protervia per un obiettivo superiore. Saggezza? Certo, chiamiamola anche saggezza misurata sul tempo.
Una virtù dei forti. Non c’è niente di peggio che un’impazienza priva di progetto. Questo vale, va da sé, non solo per la vita pubblica ma anche per quella privata. Nella filosofia buddista la pazienza è una delle sei perfezioni previste nella pratica del discepolo: la prima è la generosità; seguono: il comportamento morale, la perseveranza, la concentrazione meditativa e, appunto, la pazienza. In tutta evidenza non si tratta di virtù che oggi vengano molto esercitate. Pensate a quanto sia anacronistica la concentrazione in solitudine: la pazienza è una dote che si esercita in solitudine. Certo, poi è anche vero che la pazienza ha un limite, come dice il proverbio («ogni limite ha una pazienza», storpiava Totò): non è fatta per i tempi troppo dilatati (anche Giobbe a un certo punto fu insofferente), se è ad libitum si trasforma in passività, indolenza, accidia.
La pazienza richiede di agire «come se tutto accadesse al termine di una gravidanza». È questo il consiglio. Aspettare la maturazione del frutto, non un minuto di più e non un minuto di meno. Il paradosso, poi, è l’impazienza tardiva: quella, per esempio, di una politica frenetica che vorrebbe riparare, solo con il tappabuchi della velocità, i danni dell’inerzia del passato. Viviamo tempi troppo dilatati (i «giovani» quarantenni che non hanno ancora lavoro) o tempi ansiosi e asmatici. Il tempo naturale è quello della pazienza. La virtù, come diceva Orazio, sta sempre nel mezzo.