Filippo Facci, Libero 17/5/2014, 17 maggio 2014
LA DISFATTA DEL GARANTISMO
La prima pagina dell’Unità che festeggia l’arresto di un parlamentare del Pd, a questo punto, dovremmo appendercela in camera e rimirarla ogni mattina, così da capirlo una volta per tutte: abbiamo perso. Noi garantisti garantisti veri, quattro gatti sputtanati che siamo abbiamo perso e dobbiamo capacitarci che questo Paese non è cambiato, oppure è cambiato irrimediabilmente.
Il caso di Fracantonio Genovese non è neppure molto significativo: il Pd l’aveva candidato già da indagato, è chiaro che sarrebbe finita così, anche se certa disinvoltura la gara di forca elettorale tra Renzi e Grillo lascia comunque attoniti. Abbiamo perso perché al pari di altri casi Lusi, Bisignani, Papi, Cosentino non c’è più in giro un cretino disposto a leggersi mezza carta, a farne una questione di merito, a giustificare l’esistenza di un’autorizzazione all’arresto che a questo punto tanto vale abolire. Riferiscono che i grillini, nella Giunta per le autorizzazioni a procedere, avessero già deciso prima ancora di iniziare. Riferiscono che qualche esponente del Pd, nondimeno, abbia votato a favore nonostante delle perplessità. Le domande erano le solite: l’arresto di Genovese era davvero necessario per la prosecuzione delle indagini? L’arresto rispondeva ai requisiti per cui era stato richiesto? C’era pericolo di fuga o di inquinamento delle prove (eccetera) per un parlamentare che è semplicemente indagato e deve ancora essere processato? Non lo sappiamo, non è una domanda retorica, magari l’arresto ci stava tutto: resta che non ne abbiamo letto una riga, perché non gliene frega niente a nessuno, non se ne parla, tutto si muove in base a calcolini di piccolo commercio ed è prostituito al peggiore malanimo manettaro, con dei poveracci brufolosi che in Parlamento agitano manette e altri parlamentari che se ne fanno condizionare e, per non sbagliare, accettano che l’asticella della discussione sia ormai rasoterra. L’avanzare dei grillini e il retrocedere dei politici li ritrova tutti su un punto: che poi, dicevamo, è un punto d’arrivo, anzi, è un punto fermo dal quale non ci siamo mai mossi. È l’unico punto che ci riporta ancora e davvero a Tangentopoli. Dal 1992 a oggi, infatti, è andata così: ci sono state due italie fintamente contrapposte una garantista e una forcaiola che hanno finto di fronteggiarsi e che hanno assolto o condannato secondo convenienza: ma alla fine era sempre lo stesso Paese, oscillante e indolente nelle sue parti in commedia, vanamente inseguito da un giornalismo opportunista e basculante che ha trasformato il giustizialista e il forcaiolo in due professioni. Si è innocenti sino a sentenza definitiva? Trent’anni a dirlo, e non ci crede nessuno. Si è colpevoli dopo sentenza definitiva? Non ci crede nessuno. La custodia cautelare dev’essere l’extrema ratio? Figurarsi questo. Non si devono divulgare atti che sputtanano gratuitamente? E qui si ride. Ma non serve neanche parlar male dei giornalisti, sono in difficoltà anche loro, devono pur campare. Hanno impiegato quasi una settimana ad accorgersi che nell’inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: e, se ci sono, per ora hanno il ruolo dei babbei sfruttati e compulsati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette rigorosamente per sé. L’abbiamo già scritto: Tangentopoli per la libera stampa è anche un rimpianto, un’età dell’oro, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario che ha portato i giornalisti dall’altra parte della vetrina. Non serve aggiungere che il prezzo di tutto questo è stato un Paese sotto tutela giudiziaria: sicché, ora, basta che la magistratura chieda un arresto e questo deve essere concesso, fine. Non se ne può neanche parlare, altrimenti sei complice dei mafiosi (mafia=Stato) e poi arriva Grillo che fa un filmato in cui cerca il latitante nel bosco, con il cane. Il video di Grillo con il cane: eccolo il pararametro politico e giurisprudenziale, coi parlamentari che raccontava La Stampa di ieri mentre si votava l’arresto di Genovese maneggiavano l’iPad, o leggevano sul computer, o chiacchieravano col vicino. Questo accadeva nel Palazzo. Mentre fuori, intanto, in quella società civile che politici e giornalisti avrebbero dovuto contribuire a plasmare, scivolava fuori la notizia che avevano assolto un’altra volta le maestre di Rignano Flaminio: quelle che ovviamente finirono dentro a loro volta, tra l’orrore generale, quelle che Corriere della Sera, 25 aprile 2007 «dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre». Forza, trovate un talkshow che questa sera ne parlerà.