Danilo Taino, Corriere della Sera 17/5/2014, 17 maggio 2014
UNA VALANGA CHIAMATA MODI COSA CAMBIA IN INDIA E IN ASIA
I risultati parziali del voto politico indiano che si è svolto dal 7 aprile al 12 maggio consegnano a Narendra Modi, governatore dello Stato del Gujarat e leader del partito dei nazionalisti indù Bharatiya Janata Party (Bjp), la più grande vittoria elettorale degli ultimi trent’anni. E rappresentano uno schiaffo senza precedenti alla famiglia Gandhi, che da quattro generazioni domina il partito del Congresso fondato oltre 120 anni fa.
Oltre le più rosee previsioni, il partito di Modi ha conquistato 285 seggi, superando di 13 la maggioranza assoluta al Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento. Se si considera l’intera coalizione di centro-destra guidata dal Bjp, i seggi salgono a 335. Il Congresso di Rahul Gandhi e della madre Sonia crolla invece da 206 a 48 seggi: il peggior risultato della sua storia parlamentare. In totale per la coalizione di centro-sinistra solo 62 deputati, contro i precedenti 231. Nel primo intervento pubblico dopo la diffusione dei dati, Modi ha ringraziato i suoi elettori a Vadodara, capitale culturale del Gujarat: «Sarò il “Mazdoor” (operaio infaticabile) numero 1, lavorerò per il progresso dell’India».
DAL NOSTRO INVIATO NEW DELHI — Ieri, la democrazia ha dispiegata tutta la sua potenza e ha spazzato via i paradigmi dominanti in India. La vittoria senza precedenti a cui Narendra Modi, il figlio di un venditore di tè, ha trascinato il suo partito, il Bjp, e la decimazione subita dal Congresso della dinastia Gandhi cambiano tutto, nel Paese e nella regione.
Il carisma personale
Per Modi, 63 anni, è stata una vittoria conquistata con la forza del carisma e con l’energia di una campagna elettorale condotta con un esercito che rispondeva solo a lui. Il Bjp era un partito svogliato, senza leader: l’ha preso in carico e in tre anni l’ha portato a trionfare come in India non succedeva dal 1984, subito dopo l’assassinio di Indira Gandhi. Il trofeo conquistato sul campo gli dà ora un potere che nessun primo ministro indiano ha avuto da decenni: nei confronti del partito e del Parlamento ma anche del potente movimento Rss, i «calzoncini bruni» nazionalisti e settari che lo hanno sostenuto ma che da anni cerca di tenere a distanza. Ieri ha detto di non avere «fatto una sola vacanza» nei 13 anni in cui ha guidato lo Stato del Gujarat.È organizzatissimo ed efficiente: se riuscirà a trasferire un po’ di queste qualità nell’amministrazione, per l’India sarà una rivoluzione.
Un’India più cinese
In un Paese in cui le decisioni vengono raramente realizzate, Modi punterà a costringere — almeno dove ha il potere di farlo — l’apparato e la burocrazia a metterle in pratica. Il suo stile autoritario, da accentratore, e la sua insofferenza per le tortuosità del processo democratico renderanno l’India un poco più cinese. Per molti indiani, che verso il gigante al confine Nord soffrono un’invidia da inefficienza, per gli imprenditori e per gli investitori sarebbe musica. Il suo primo obiettivo — ha ribadito ieri — «è lo sviluppo»: realizzare infrastrutture, portare industrie e posti di lavoro, aprire al business in modo che l’India rientri nella mappa delle fabbriche che lasciano la Cina, dove i costi sono saliti, ma per ora vanno in Vietnam e Birmania. È un modello che ha applicato nel Gujarat, cercherà di replicarlo su scala nazionale. Promette riforme radicali: vedremo se le farà.
I rischi autoritari
Il decisionismo sul piedistallo unito al nazionalismo — «è stato dato un forte mandato a un partito nazionalista», ha detto — si porta dietro rischi autoritari. E c’è chi teme che i circoli legati all’Rss che di recente hanno zittito voci dissonanti e limitato la libertà di espressione si sentano ora rafforzati. In più, l’ondata politica induista preoccupa i 180 milioni di musulmani: temono l’emarginazione e le violenze organizzate. Sono preoccupazioni giustificate. Dopo 67 anni di indipendenza, 55 con il laico partito del Congresso al potere, la democrazia indiana ha però anticorpi per difendersi. Ieri, in ogni caso, Modi ha detto che «non ci sono nemici in politica e democrazia», che sarà il primo ministro di tutti e che ora «si prepara una nuova generazione» politica (lui è il primo premier nato nell’indipendenza).
Un’Asia nazionalista
La tendenza nazionalista del nuovo governo di Delhi va a rafforzare quella già presente nella regione, in Giappone e Cina. Modi, però, sarà probabilmente guidato, anche negli affari internazionali, più dall’economia e dal business che dall’ideologia: la politica estera seguirà parecchio le rotte del commercio indiano. Dall’altra parte, invece, il Pakistan, anch’esso potenza nucleare, ha con l’India contenziosi aperti e dà segni di nervosismo.
Il tramonto dei Gandhi
L’idea stessa che l’India possa vedere svanire il potere del Congresso e della famiglia Gandhi racconta del vento portentoso di cambiamento che ieri ha soffiato sul Paese. La possibilità è tutt’altro che lontana: una decimazione del genere non ha precedenti e ricostruire partendo da meno di 50 deputati su 543 sarà difficile. Ieri, Sonia Gandhi, presidente del partito, e suo figlio Rahul, vicepresidente e leader inefficace della campagna elettorale, si sono assunti la responsabilità della sconfitta. Giusto. Ma non basta. Il Congresso è diventato vecchio: paralizzato nella nostalgia delle glorie del passato — quelle di Jawaharlal Nehru, di Indira Gandhi, del figlio Rajiv e in parte di Sonia —, ha continuato a pensare a un Paese che vuole assistenzialismo, prezzi politici, sussidi. Modi ha invece capito che l’India di oggi, anche quella povera, vive di aspirazioni, vuole vedere l’economia crescere, mandare i figli all’università, diventare classe media o consolidarsi come tale. Che anche il Congresso la capisca e che torni a fare la grande politica è fondamentale se la travolgente democrazia vista ieri non vorrà raggrinzire.