Maurizio Crosetti, la Repubblica 17/5/2014, 17 maggio 2014
QUEL COLPO DI SCHIAVIO IL PRIMO URLO AZZURRO NELLA ROMA FASCISTA
La voce di Nicolò Carosio riempiva le strade. Diffusa dagli altoparlanti, rimbalzava sul selciato e sui muri come il sole nel gioco dell’ombra e della luce. La radio era la regina della fantasia, e gli azzurri vincevano il campionato mondiale di calcio. Anno XII dell’Era Fascista, il 1934. «Auspice il clima littorio, gli italiani forgiati dal Duce nel culto di Roma antica esultano per le immancabili vittorie». Carosio era un maestro di pause e riprese improvvise, quieto e ingessato come uno speaker di cinegiornale. L’Italia, oltre che forgiata, immaginava. E la radio si leggeva come un romanzo.
Anzlèin Schiavio, Angiolino ma solo fuori Bologna, era un ragazzo stempiato, con orecchie a sventola e nasone da ciclista assai adatto alle caricature a matita che a quel tempo erano così popolari. Un passo avanti, e il saluto romano. Mussolini, in tribuna con un bianco berretto da marinaio, sorrideva. Pomeriggio del 27 maggio, Stadio del Partito Nazionale Fascista, quello che nel ‘57 sarebbe stato demolito per costruirci sopra il Flaminio. Gara d’inaugurazione contro gli Stati Uniti, esiste persino qualche filmato, svolta epocale. Dopo diciotto minuti, il centravanti del Bologna segna la prima rete della storia mondiale azzurra: ne farà altre due, e in tutto saranno sette contro una degli americani, peraltro del paisà Donelli. Il torneo è tutto a eliminazione diretta, dopo gli ottavi con gli Usa c’è la Spagna nei quarti (ha appena cacciato il Brasile), si gioca due volte perché la prima finisce 1-1 dopo i supplementari, e a quell’epoca non esistono monetina o rigori. Si passa con l’aiuto dell’arbitro che non vede un fallo di Schiavio (chiuderà il torneo con 4 gol) su Zamora, portiere da leggenda (ma lo beffa Ferrari), che 24 ore dopo verrà sostituito insieme ad altri sette titolari: solo stanchi? Intimiditi dal regime? Non si saprà mai.
L’Italia non è soltanto una squadra, anzi una “compagine”. È un’arma di propaganda, è un braccio teso fascista. Deve vincere. Deve. Infatti la replica finisce 1-0, gol di “Balilla” Meazza, e 1-0 si chiude pure la semifinale contro l’Austria, il “Wunderteam”: fallaccio di Meazza sul portiere Platzer, irrompe Guaita e segna, l’arbitro anche stavolta non muove un dito se non per indicare il centro del campo. “La fiera squadra azzurra” affronta e supera la Cecoslovacchia nella finalissima del 10 giugno, stavolta il Duce è in completo bianco che pare un gelataio. Siamo sotto a un quarto d’ora dalla fine, gol di Puc, Orsi pareggia e nei supplementari Anzlèin Schiavio risolverà con un destro potente, da posizione quasi ingobbita. «Camminava e correva ondeggiando lievemente, sì che l’avversario non sapeva da che parte prenderlo. Lo scatto pronto, autoritario. L’azione potente e veloce. Aveva un dribbling stretto, secco, imperioso. Il suo tiro era una fucilata». Così lo raccontò Bruno Roghi, gran cantore dell’epoca. Così, invece, Brera: «D’improvviso lo vidi scendere a rete in un gran bagliore di luce: aveva gambe arcuate, gonfie, quasi bitorzolute ». Non lasciò mai il Bologna: 242 gol in 348 partite, quattro scudetti. Era il figlio di un negoziante di tessuti di origine comasca. I capelli imbrillantinati li raccoglieva in una retina con una “S” ricamata.
Per rientrare un po’ dalle spese organizzative, si stamparono francobolli e si produssero le sigarette “Campioni del mondo”. Il commissario tecnico Vittorio Pozzo era un giornalista torinese, già segretario della Figc, niente stipendio ma solo rimborsi spese. Ex alpino, a 52 anni pareva già un vecchio. Aveva il culto della disciplina, faceva cantare l’inno e i cori di montagna prima delle partite. Durante il ritiro premondiale concesse agli azzurri una sola sortita al casino, tariffa di lusso, dieci franchi, dopo un allenamento a Novara, su decisa spinta di Meazza.
Gli azzurri avrebbero vinto pure le Olimpiadi nel ‘36 e l’altro mondiale nel ‘38, in Francia. «Le prodezze sportive accrescono il prestigio della nazione e abituano gli uomini alla lotta in campo aperto», gongolava il Duce. Il giorno dopo il trionfo romano, La Stampa parlò di “dovere compiuto” e La Gazzetta dello Sport titolò a nove colonne: “Gli azzurri conquistano alla presenza di Mussolini il Campionato del Mondo” (prima riga)/Learco Guerra iscrive il proprio nome sul libro d’oro del Giro d’Italia (seconda riga). Gloria e destino coabitavano, pallone e biciclette con medesima dignità, e le bici appena un po’ di più.
Maurizio Crosetti, la Repubblica 17/5/2014