Massimiano Bucchi, la Repubblica 17/5/2014, 17 maggio 2014
SCIENZIATI CON IL COMPLESSO DI FRANKENSTEIN
Il titolo del libro, fresco di stampa, è inequivocabile e inquietante, soprattutto se siete maschi sopra una certa età: “La grande beffa della prostata”. Il sottotitolo fa pensare a un’inchiesta scandalistica o a un esempio di controinformazione: “Come la grande medicina ha messo le mani sul test Psa, provocando un disastro nella sanità”. Un tono piuttosto categorico contro un test – quello del dosaggio dell’antigene prostatico specifico – che negli ultimi decenni è divenuto assai diffuso, in alcuni Paesi, per la diagnosi del tumore alla prostata.
È una critica che si potrebbe liquidare come una voce controcorrente, se non fosse che viene da Richard Ablin, professore di patologia all’Università dell’Arizona, ovvero proprio lo scienziato che ha scoperto l’antigene Psa nel 1970. Ablin accusa i medici, il settore farmaceutico e la Food and Drug Administration americana di aver agito «anteponendo gli interessi finanziari a quelli dei pazienti», trasformando il test Psa in un esame di routine con più controindicazioni che benefici, fissando una soglia del test, oltre la quale scatta l’allarme, che Ablin definisce “arbitraria”. Il test secondo lui ha un’utilità specifica per monitorare pazienti già operati, ma il modo in cui viene usato, soprattutto negli Stati Uniti, oltre che ad elevate spese sanitarie porta «molti individui a ricevere trattamenti non necessari, con relativi rischi collaterali».
La discussione nel merito resta aperta tra gli esperti del settore, ma il caso di Ablin e del Psa non è certamente unico nel suo genere. Può accadere, infatti, che scoperte o innovazioni di grande impatto siano “rinnegate” da chi le ha intuite o messe in moto; che la loro affermazione, impatto e diffusione travolga e spiazzi gli stessi scopritori o innovatori. Alcuni dei casi più eclatanti riguardano, come è facile immaginare, l’ambito bellico. Se una parte degli scienziati coinvolti nella realizzazione della prima bomba atomica, sganciata su Hiroshima con tragiche conseguenze per la popolazione civile, rimase convinta fino alla fine dell’importanza e necessità del progetto, altri restarono profondamente segnati dal suo drammatico esito.
Il fisico Frank Oppenheimer, che pure nel progetto Manhattan aveva avuto un ruolo marginale rispetto a quello del fratello Robert (e che per questo si definiva scherzosamente “lo zio della bomba atomica”), dopo essere stato bandito dalle università americane in seguito a un processo per sospetta militanza comunista, si dedicò alla didattica delle scienze creando l’Exploratorium di San Francisco. Ma anche qui, ogni 6 agosto (anniversario del lancio della bomba), Oppenheimer si chiudeva nel suo ufficio pieno di fumo; apriva il cassetto della scrivania dove teneva una bottiglia di whisky e si passava la mano sulla fronte «come se volesse cancellare qualcosa dal profondo della propria mente». Forse ancora più celebre è il caso del chimico, inventore e imprenditore svedese Alfred Nobel, titolare di oltre trecento brevetti tra cui la dinamite. Secondo alcune interpretazioni, a spingere Nobel a istituire il premio, fu, tra l’altro, un episodio avvenuto alcuni anni prima, quando per errore alla scomparsa del fratello fu pubblicato il suo necrologio che lo descriveva come “mercante di morte”. Desideroso di essere ricordato in modo diverso, Nobel scrisse poche righe che avrebbero cambiato la scienza e la sua immagine pubblica, stabilendo che gran parte del suo patrimonio fosse destinato a premiare la più importante scoperta o invenzione in fisica, chimica, fisiologia o medicina; «l’opera letteraria più notevole di ispirazione idealistica»; «la personalità che avrà più contribuito al ravvicinamento tra i popoli». In tempi molto più recenti, un altro chimico, l’americano di origine russa Alexander Shulgin, si fece un nome sviluppando per una grande azienda il primo pesticida biodegradabile e pubblicando importanti articoli scientifici. Nel 1976 elaborò un nuovo procedimento di sintesi di una sostanza sino ad allora trascurata, pensando che potesse essere di aiuto nella psicoterapia. La MDMA, spesso nota come ecstasy, si diffuse in modo cospicuo nei decenni successivi. Il quotidiano Daily Mail si chiese se Shulgin fosse responsabile della morte di centinaia di giovani; il chimico si disse rammaricato per il modo in cui era stata usata la sua scoperta, ma soprattutto per il fatto che essendo divenuta illegale, non era più possibile condurre esperimenti sui suoi effetti. Negli anni Novanta, un portavoce dell’agenzia federale antidroga statunitense affermò che copie del libro autobiografico scritto da Shulgin con la moglie si trovavano in tutti i laboratori clandestini in cui l’agenzia faceva irruzione, definendolo «un libro di ricette per sostanze illegali».
Ma il rapporto ambivalente degli studiosi con i propri risultati non è circoscritto alle scienze naturali. A metà degli anni Sessanta due psicologi di Harvard allievi di Skinner, i fratelli Gable, utilizzarono la tecnologia missilistica per realizzare un braccialetto elettronico da far indossare a ragazzi in carico ai servizi sociali. L’idea era quella di ricompensare positivamente i comportamenti corretti dei ragazzi, ed effettivamente il sistema portò a una riduzione nella recidività dei reati. Una decina di anni dopo, quando i due fratelli avevano già lasciato Harvard, il sistema si diffuse come forma di controllo e punizione, secondo quella che i due definirono «una grossolana appropriazione indebita» del proprio sistema. Questo rapporto ambivalente con le proprie creazioni oggi naturalmente investe anche le tecnologie digitali. È recente il caso di Flappy Bird, videogioco elementare dal successo così vasto e inatteso – scaricato 50 milioni di volte, generava per il suo autore profitti di 50.000 dollari al giorno – da travolgere il giovane programmatore vietnamita Dong Nguyen, che lo aveva realizzato come svago nel tempo libero. Sopraffatto dai messaggi di giocatori che sostenevano di aver rotto lo smartphone a forza di giocarci e lo definivano «fonte di dipendenza come il crack», Nguyen ha deciso a sorpresa di rimuoverlo dagli app stores; «questo gioco mi ha rovinato la vita». Chissà se, potendo, anche Ablin e gli altri avrebbero scelto di cancellare con un click scoperte e invenzioni sfuggite loro di mano.
Massimiano Bucchi, la Repubblica 17/5/2014