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 2014  maggio 17 Sabato calendario

L’EURO VA ALLA GUERRA


Le rivelazioni dell’ex segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, sulla caduta del governo Berlusconi nel 2011 hanno riportato alla memoria i frenetici giorni dello spread a 570 punti, quando sembrava che l’Italia non avesse alternative tra l’arrivo della Troika e il fallimento conclamato. E quando pochi giorni dopo, giovedì 25 maggio, i dati di Eurostat hanno mostrato che il pil dell’Italia è inaspettatamente diminuito dello 0,1% nel primo trimestre rispetto a quello precedente, rendendo quasi impossibile l’obiettivo del governo Renzi di raggiungere una crescita del pil dello 0,8% nel 2014, lo spread si è impennato da 154 a 184 punti.
Si è così potuta toccare con mano la fragilità della lunga tregua che i mercati hanno concesso a Roma. Potrebbe trattarsi di una fiammata passeggera, ma ormai siamo a un passo dai 15 giorni che rischiano di stravolgere l’Europa, o meglio Eurolandia: domenica 25 maggio si terranno le elezioni per l’Europarlamento e giovedì 5 giugno il Consiglio direttivo della Bce sarà chiamato a decidere misure per scacciare lo spettro della deflazione e sostenere una ripresa decisamente debole e incapace di arrestare l’aumento della disoccupazione.
Laurence Boone, economista di Bank of America Merrill Lynch, ha sottolineato che i risultati delle elezioni europee contano molto per i mercati perché «è cresciuto il rischio che la disaffezione politica possa aumentare la frammentazione nelle istituzioni europee, cosa che ostacolerebbe i processi di integrazione non fornendo alcun senso di direzione, che, a sua volta, potrebbe indebolire le politiche economiche e creare nuove complicazioni alla regolamentazione dei mercati finanziari».
Alla disaffezione politica nei confronti della Ue, sottolinea Boone, ha contribuito «la mancanza di trasferimenti fiscali e della mutualizzazione dei debiti, malgrado una più forte ingerenza della Ue negli affari interni dei Paesi membri». Tradotto in soldoni: il rifiuto degli eurobond e di allargare i cordoni della borsa da parte della Germania, unita all’aumento delle ingerenze di Bruxelles nelle politiche economiche dei Paesi membri farà aumentare i voti dei partiti anti-euro e di quelli cosiddetti populisti. Tutto questo, secondo l’economista di Bank of America Merrill Lynch, renderà «improbabile un cambiamento sostanziale nei trasferimenti di sovranità o un’ulteriore integrazione» europea. «Ma questo è un equilibrio temporaneo», avverte Boone, «e non è probabile che sia sostenibile nel medio-lungo termine sia a livello europeo che nazionale». In parole semplici, l’esito delle elezioni europee perpetuerà lo statu quo nella Ue. I mercati potranno concedere ancora un po’ di tregua, ma poi sarà inevitabile che esplodano le attuali contraddizioni perché per risolverle è necessario un salto in avanti nell’integrazione europea. Boone dimentica di dire quale sia l’alternativa. Ma ci ha pensato Time Magazine, mettendo in copertina Marine Le Pen e chiedendosi se la leader del Front National possa distruggere l’Unione europea dall’interno.
Perché l’alternativa è quella di tornare alle monete nazionali. Ma questo è un discorso a medio termine in quanto le elezioni presidenziali francesi si terranno solo nel 2017 e non è affatto detto che le vinca la Le Pen. Se però arrivasse prima alle elezioni del 25 maggio, tornerà inevitabilmente a riaffacciarsi il tema della dissoluzione dell’euro, questa volta non più dovuta alla bancarotta di un Paese membro ma a ragioni di natura politica.
Ragionando sull’immediato, lo scoglio successivo alle elezioni europee è il Consiglio direttivo della Bce del 5 giugno. Gli ultimi dati sul pil e sull’inflazione in Eurolandia hanno reso ancora più delicato l’incontro, esasperando il clima d’attesa. Tutti sono convinti che la Bce agirà. Ma molti sono sicuri che limitarsi a tagliare i tassi d’interesse dallo 0,25 allo 0,10%, magari con la mossa aggiuntiva di portare sotto zero i tassi sui depositi, sarebbe solo un pannicello caldo, una soluzione intermedia buona per far passare l’estate e convincere la Bundesbank ad accettare un Qe in stile Federal Reserve, ovvero un piano massiccio di acquisti di titoli di Stato e di Abs, i bond emessi a fronte di cartolarizzazioni. Con la segreta speranza che nel frattempo la congiuntura sia migliorata al punto da poter soprassedere a una decisione così radicale. Quest’ultima sembra però una pia illusione, visto che il rallentamento della locomotiva cinese è dato per scontato dallo stesso governo di Pechino e la ripresa Usa sembra ancora gracile e comunque non abbastanza pimpante da riuscire da sola a fare da locomotiva al resto del mondo, come spesso succedeva nei bei tempi andati. Anche perché agli Usa manca una sponda decisiva, quella europea (chissà perché non viene mai ricordato che il pil dell’intera Ue è superiore a quello degli Stati Uniti). Come se non bastasse, la crisi ucraina e il clima da nuova Guerra Fredda che si è instaurato faranno probabilmente cadere in recessione la Russia, con inevitabili conseguenze negative sui suoi principali partner commerciali europei, la Germania e l’Italia.
Questo scenario rende ancora più impellente la necessità di un indebolimento dell’euro. Gli esponenti della Bce ne parlano in modo bizantino, ma è chiaro che, a parte il solito presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, sono tutti consapevoli che bisogna abbassarne il valore per dare una spinta alle esportazioni, cosa di cui hanno bisogno tutti i Paesi aderenti alla moneta unica a eccezione (per ora) della Germania. Ma per indebolire l’euro, limitarsi a un taglio dei tassi non basta. Anche in questo caso ci vuole un Qe all’americana. Sperando che non abbiano ragione gli economisti di Morgan Stanley, secondo i quali un Qe porterebbe a un calo dell’euro sul dollaro limitato al 4% e comunque nel lungo termine non sarebbe in grado di sostenere un sostanzioso indebolimento della moneta unica. Come dire che non avrebbe nessun effetto positivo sulle esportazioni di un Paese come l’Italia, che avrebbe invece bisogno di un euro a 1,10-1,20 dollari. In una situazione del genere l’Italia rischia e il primo avvertimento è arrivato giovedì 15. Altri avvertimenti potrebbero presto arrivare se si concretizzasse lo scenario peggiore per i mercati: alle elezioni europee il Front National si afferma come primo partito in Francia e il Movimento 5 Stelle lo diventa in Italia e il 5 giugno la Bce si limita a tagliare i tassi d’interesse rimanendo sul vago riguardo a un prossimo avvio del Qe. Perché a quel punto il potere della parola su cui ha fatto conto Mario Draghi rischierebbe sul serio di svuotarsi. Così i mercati tornerebbero in fibrillazione e la prima vittima sarebbe l’Italia, nonostante tutta la buona volontà del governo Renzi. Perché di fronte allo stallo politico a livello europeo e a una perdita di credibilità della Bce la tentazione sarebbe troppo forte per gli speculatori. Visto che la Germania continua tetragona nelle sue politiche restrittive, non resta allora che affidarsi all’amico americano. Come ha rievocato Geithner nel suo libro di memorie Stress Test, è stato lui a convincere Draghi ad agire contro il parere della Germania e a fare la famosa dichiarazione del 26 luglio 2012 (la Bce «è pronta a salvaguardare l’euro con qualsiasi mezzo») su cui si regge ancora oggi la stabilità della moneta unica. «Draghi sapeva», ricorda il segretario al Tesoro Usa dell’epoca, «che doveva fare di più, ma aveva bisogno del sostegno dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il sostegno della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso dell’Europa. Li devi mollare, gli dissi». La storia si ripete.

Marcello Bussi, MilanoFinanza 17/5/2014