Varie, 17 maggio 2014
A Rignano Flaminio gli orchi non c’erano. Lo hanno confermato, venerdì scorso, anche i giudici del processo d’appello: nessun abuso sessuale nella scuola materna “Olga Rovere” e per tutti gli imputati (tre maestre, il marito di una di queste e una bidella) è stata confermata la sentenza assolutaria con la formula più ampia: «il fatto non sussiste»
A Rignano Flaminio gli orchi non c’erano. Lo hanno confermato, venerdì scorso, anche i giudici del processo d’appello: nessun abuso sessuale nella scuola materna “Olga Rovere” e per tutti gli imputati (tre maestre, il marito di una di queste e una bidella) è stata confermata la sentenza assolutaria con la formula più ampia: «il fatto non sussiste». I cinque, nel 2007, erano stati mandati a processo e in galera, insieme ad una sesta persona, con le seguenti accuse: violenza sessuale di gruppo, maltrattamenti, corruzione di minore, sequestro di persona, atti osceni, sottrazione di persona incapace, turpiloquio, atti contrari alla pubblica decenza [Giacomo Galeazzi, La Stampa 17/5]. Titoli dei giornali tra aprile e maggio 2007: «Il racconto delle vittime: “Dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre”» (Corriere). «Quei pedofili ogni domenica a messa» (Tempo). «I bimbi dell’asilo: “Ci violentava il Diavolo”» (Messaggero). «Spariscano per sempre» (Corriere). «Il lungo silenzio nel paese dei “mostri”» (manifesto). «Nessuna pietà per gli orchi» (Stampa). «Gli orchi tornano a Rignano». (Stampa). «Quel giorno mia figlia mi disse: “Mamma, ho visto l’uomo nero”» (Repubblica). «I parenti degli arrestati in fuga dopo il lancio di monetine» (Messaggero). «I bambini dell’asilo drogati dalle maestre» (Stampa). «Le case dei “giochi”, le sevizie, le percosse e gli orrori» (Repubblica) [Claudio Cerasa, Twitter]. Dall’ordinanza del Gip: «In questa casa spogliavano completamente i bambini e li lasciavano fuori nudi al freddo; poi li mettevano dentro sacchi dell’immondizia e infilavano loro dei cappucci con le corna; li facevano quindi rientrare in casa e i “grandi” si vestivano di nero e da diavolo con cappucci» […] Una delle maestre aveva incendiato un crocifisso e detto ai bambini che Gesù era cattivo e il diavolo buono» [la Repubblica 26/4/2007]. Il sesto imputato, il primo a essere scagionato, era un benzinaio cingalese. Finì in una cella in seguito ad un paio di testimonianze di alcuni genitori. Venne iscritto nel registro degli indagati per essere «l’uomo nero con il codino» che guidava la macchina che avrebbe trasportato i bambini della Olga Rovere fino alle case degli orchi. Le testimonianze chiave: un genitore, avvicinandosi alla pompa di benzina, avrebbe riconosciuto «l’uomo nero» quando il bambino si sarebbe rivolto al cingalese dicendo: «Cattivo, cattivo, uomo nero». La seconda sono le affermazioni di un genitore che aveva notato che «la sua bambina salutava Maurizio con sorrisetti e occhiate da fidanzatina». Più avanti, dopo che il benzinaio uscì di galera, si scoprì che non si chiamava Maurizio, non aveva mai portato il codino, non aveva la patente e soprattutto non c’entrava niente con quell’indagine [Claudio Cerasa, ilfoglio.it 7/12/2010]. Carlo Bonini fu uno dei pochi giornalisti a capire subito che a Rignano si stava celebrando un processo senza prove, un abbaglio da psicosi e contagio collettivi: «Non una testimonianza, non una prova documentale (che sia l’oscenità di una foto, di un diario, di un file custodito in qualche computer) o un’intercettazione telefonica. Non un’evidenza medica sui corpi dei piccoli, non una traccia biologica sugli oggetti maneggiati dagli “orchi” o nei luoghi indicati come teatro dei loro indicibili riti (peluche, automobili, abitazioni degli indagati)» [il Post 16/5]. Sempre Bonini, all’indomani dell’assoluzione in primo grado (tribunale di Tivoli, maggio 2012): «La storia di una catastrofe processuale, umana, civica, arriva così al suo inevitabile compimento. Con un’assoluzione che prende atto con coraggio e limpidezza di un vuoto probatorio macroscopico. Che mette a nudo l’ostinazione di una Procura della Repubblica e di un ufficio gip che pur di non riconoscere i propri errori, di non arrendersi all’evidenza contraria del fatto che si intendeva provare, hanno trasformato questa storia in un’interminabile ordalia che ha schiantato per sempre le vite di chi ne è stato inghiottito» [Carlo Bonini, la Repubblica 29/5/2012]. Poche settimane fa c’è stato brutto caso di cronaca, poco fuori Londra. Hanno trovato tre bambini disabili morti nella villa di lusso dove abitavano con la madre, casalinga di 42 anni, mentre il padre – agente di borsa – era in visita da alcuni parenti all’estero insieme alla figlia grande. La mamma era a casa coi bambini ed è stata arrestata, non ci sono altri sospettati. L’indomani il Guardian gli dedicò l’intera pagina 3. Titolo: «Una donna è stata arrestata dopo che tre bambini disabili sono stati trovati morti a casa». Incipit: «Una donna di 42 anni è stata fermata perché sospettata di omicidio, dopo che tre bambini sono stati trovati morti in un’abitazione. I corpi sono stati trovati in una camera da letto di una grande proprietà a New Malden, sud ovest di Londra, dove abitano Gary Clarence, finanziere della City, sua moglie Tania, e i loro quattro figli» [Francesco Costa, il Post 25/4]. «Immaginare come verrebbe trattato un caso del genere dalla stampa italiana: La famiglia ricca e benestante, la villa, il bel quartiere; la moglie sola a casa che ammazza i figli disabili; il padre che lavora nella finanza e passa più tempo in ufficio che a casa. Immaginare i titoli, le figure retoriche, le analisi da quattro soldi, le interviste agli psichiatri, i sociologi scatenati, gli editoriali sui soldi che non fanno la felicità e cose del genere». In Italia il solito sospetto è una prassi. Forse incentivata da inquirenti talora non così infallibili, l’informazione preferisce al dubbio la risposta più facile e tendenziosa. «Insegue il titolo a effetto, quello che titilla la pancia e garantisce condivisione massima: la prima ipotesi è sempre la migliore, ancor più se ha un che di morboso» [Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 9/1]. Esempi. Il 3 gennaio 2014, in una villetta di Caselle Torinese vennero uccisi con un tagliacarte due coniugi e la madre della donna. Buona parte dei media lasciò intendere che il colpevole non poteva essere che Maurizio Allione, figlio e nipote delle vittime. Gli inquirenti in conferenza stampa dissero che i suoi rapporti con la famiglia «non erano intensi». I giornali cominciaro a stringere il cerchio: «Svolta nelle indagini, interrogato il figlio di 5 ore»; «C’è un buco di 70 minuti nel suo alibi»; «È lui il naturale sospettato». Quando si recò sul luogo del delitto i vicini, invece di fargli le condoglianze, lo invitarono a «comportarsi bene», una donna gli fece una foto con il telefonino [Marco Imarisio, Corriere della Sera 9/1]. Mohammed Fikri abitava a Brembate di Sopra, quello della scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio. Due gli indizi che lo portarono in carcere a fine 2010. Un’intercettazione telefonica in cui avrebbe detto «che Allah mi perdoni, io non l’ho uccisa» e un biglietto per la Tunisia. Durante la permanenza di Fikri in carcere, a Brembate alcune persone esposero cartelli contro i marocchini. Dopo pochi giorni è venuto fuori che il viaggio in Tunisia era stato prenotato da molto tempo e concordato col datore di lavoro. E che la traduzione della frase di Fikri – che comunque diceva di non avere ucciso la bambina – era del tutto errata: aveva detto semplicemente «Allah, per favore, fa che risponda» [Francesco Costa, il Post 7/12/2010]. Meredith Kercher venne uccisa la notte tra l’1 e il 2 novembre del 2007, nell’appartamento che divideva con altre tre ragazze. I primi sospetti si diressero sull’americana Amanda Knox e il fidanzato Raffaele Sollecito (condannati in primo grado, assolti in appello, rimandati dalla Cassazione un’altra volta in Corte d’appello e da questa nuovamente condannati ma, per adesso, senza misure cautelari). Terzo sospettato Patrick Lumumba, un uomo congolese proprietario del locale dove lavorava la stessa Knox. Fu lei ad accusarlo e dire di averlo visto sul luogo del delitto. Gli inquirenti considerarono attendibile la testimonianza a causa della traduzione errata di un SMS di Lumumba, che aveva scritto a Knox «see you later». Gli inquirenti lo tradussero con «ci vediamo dopo», sostenendo che quella frase provava che i due si fossero poi incontrati. In realtà si trattava di un generico «ci vediamo». Lumumba rimase in carcere per quattordici giorni, al termine dei quali venne rilasciato e sollevato da ogni accusa. Lo Stato lo ha risarcito con otto mila euro, lui ha fatto ricorso. L’11 dicembre del 2006 scoppiò un incendio in un appartamento, a Erba. I pompieri arrivano e trovano quattro cadaveri, tra cui un bambino e sua madre. Le indagini e i sospetti arrivarono su Azouz Marzouk, tunisino, padre e marito di due vittime. Per giorni fu il sospettato numero uno, in un clima di caccia all’immigrato. Marzouk al momento del reato si trovava in Tunisia. Tornò precipitosamente in Italia e i carabinieri confermano il suo alibi [Francesco Costa, il Post 7/12/2010]. Filippo Pappalardi, camionista di Gravina. Padre di Francesco e Salvatore, due bambini scomparsi nel giugno 2006 e ritrovati morti nel febbraio 2008 in fondo a un pozzo a poche centinaia di metri da casa. I bambini caddero per l’improvviso cedimento della balaustra di protezione di una caditoia da un’altezza di circa 14 metri. Accusato da un bambino che disse di averlo visto con i figli poco prima della scomparsa, sospettato per alcune intercettazioni in gravinese stretto in cui secondo l’accusa diceva alla compagna «non lo dire a nessuno dove stanno i bambini. Come è vero Iddio, mi uccido» (trascrizione della difesa: «Se fanno del male ai bambini, mai sia, mi uccido!»), il Pappalardi fu arrestato nel novembre 2007 con le accuse di sequestro di persona, duplice omicidio aggravato e occultamento di cadavere. Ai domiciliari dal marzo 2008, in libertà definitiva dal successivo aprile. Filippo Pappalardi aveva subito raccontato agli agenti di aver saputo dalla mamma di uno degli amichetti che Ciccio e Tore la sera della scomparsa, all’incirca alle 20, erano nei pressi del municipio (non lontano da dove furono poi ritrovati i cadaveri). Non venne creduto, nessuno andò a controllare: «Un chiaro tentativo di depistaggio», scrisse il gip, ordinandone l’arresto per omicidio. Debbraio del 2009 una ragazzina venne stuprata nel parco della Caffarella, a Roma. Pochi giorni dopo vennero arrestati due cittadini romeni Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz. Quest’ultimo venne soprannominato dalla stampa «faccia da pugile». Un mese dopo, il test del dna dimostrò l’innocenza dei due. Settembre 2006, una ragazzina di dodici anni confessò ai genitori di essere stata violentata da un marocchino. La giovane disse di essere stata avvicinata da un gruppetto di quattro o cinque sconosciuti in un parco pubblico e di essere stata costretta a un rapporto sessuale. I militari arrestarono un marocchino di 20 anni, con l’accusa di violenza sessuale aggravata: risalirono a lui sulla base della descrizione del suo abbigliamento fatta dalla vittima, cioè una maglietta nera Dolce e Gabbana. Gli accertamenti clinici esclusero che la ragazza fosse stata violentata. Non si trovarono altre prove a carico di Mehdi, che venne rilasciato il giorno dopo quando la ragazzina ammise di essersi inventata tutto. Pasquale, 46 anni, incensurato. All’alba del 26 maggio del 2010, venne arrestato perchè accusato di violenza sessuale e riduzione in schiavitù. Per otto giorni fu detenuto nel carcere di Cassino, poi passò il resto della sua misura cautelare chiuso in una cella del carcere Rebibbia di Roma con altre sei persone. Il 14 marzo del 2011, dopo circa un anno, il Gup del Tribunale di Roma lo assolse per il reato di riduzione in schiavitù, ma lo condannò a 5 anni e 4 mesi per il reato di violenza sessuale. Il 17 gennaio del 2012, la Corte d’Assise d’Appello di Roma assolse Pasquale «per non aver commesso il fatto». Venne liberato dopo un anno e 4 mesi di misura cautelare in carcere. Le statistiche confermano che in Italia, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato [Repubblica 29/3/2012]. Italiani vittime della giustizia dal Dopoguerra: 4 milioni. Risarcimenti pagati dallo Stato dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione (1988): 600 milioni di euro. [sportellodeidiritti.it 5/1/2014]. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il fatto che aveva un’auto e una targa simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri [Repubblica 29/3/2012]. Il giorno in cui fu arrestato Enzo Tortora (17 giugno 1983), finirono in carcere per la stessa inchiesta altre 855 persone. Qualche mese dopo i rinviati a giudizio furono molti di meno: 640. Novanta persone erano state arrestate soltanto per omonimia. Ridotti ulteriormente gli imputati: 243. Condannati finali: 77 [Il cuore in gabbia. I più drammatici errori giudiziari della storia d’Italia] Riccardo Arena: «Queste storie sono la realtà della nostra Giustizia penale. Una Giustizia che si manifesta oggi solo attraverso l’applicazione della misura cautelare: la detenzione prima del giudizio. Misura cautelare, e non il processo, che è diventata indebitamente la fase centrale di questo cosiddetto giudizio penale. Misura cautelare, basata sui gravi indizi e non sulla colpevolezza accertata dopo un dibattimento processuale, che viene fatta scontare in carceri a dir poco vergognose e che è peggiore della tortura». Tortura non solo per il degrado delle galere, ma anche per l’incertezza, e non la certezza, che contraddistingue la fase del dibattimento, del processo. «Processo che sostanzialmente non esiste più a causa dei tempi interminabili, quindi ingiusti, e a causa dell’epilogo imprevedibile, quindi evanescente. Ai limiti della casualità. È il caso, e non l’applicazione ferrea del diritto o la valutazione rigorosa della prova, che fornisce una risposta di giustizia ai tanti cittadini in attesa di giudizio. È il caso, e non la regola generalmente applicata, che, pur tardivamente, svela l’errore. Già il caso. Il caso di imbattersi in un giudice capace di affermare la verità dopo anni di misura cautelare, certificando così un errore che si poteva e che si doveva evitare prima. Questa è la Giustizia di oggi. Auguri» [Riccardo Arena, il Post 11/12/2012].