Marzio Breda, Corriere della Sera 17/5/2014, 17 maggio 2014
ROMA —
Mercoledì prossimo Renato Brunetta presenterà un libro, Berlusconi deve cadere, cronaca di un complotto, in cui ricostruisce la crisi che portò alle dimissioni del Cavaliere. Annuncia che, fra «tante cose inedite», racconterà «come non fu sottoscritto il decreto legge cosiddetto sviluppo da parte del presidente della Repubblica, mandando Berlusconi a Cannes a mani vuote», nel vertice del 3 e 4 novembre 2011. Stavolta, dunque, il capogruppo berlusconiano alla Camera rilancia a Giorgio Napolitano un’accusa già accennata, ma senza un preciso affondo, nelle scorse settimane. Di aver cioè «sabotato», non avallandole, certe misure di finanza pubblica messe in cantiere dal governo in quell’autunno terribile, quando s’incrociarono tre diverse emergenze: 1) il premier si trovò a subire la concentrica e ostile pressione di alcuni partner dell’Ue e di altre istituzioni internazionali; 2) l’Italia rischiò il commissariamento per il disordine dei propri conti; 3) la stessa eurozona, anche per i ripetuti collassi dell’economia greca, fu sull’orlo dell’implosione. Quanto al punto politico su cui si fonda la teoria berlusconiana del «quarto colpo di Stato», provvidenziale in questa vigilia di voto, il Quirinale ha replicato mercoledì citando una sequenza di episodi e discorsi pubblici che non è stata contestata nel merito da coloro che pretendono di collocare il presidente al centro di una trama segreta. È dunque su quest’ultima anticipazione di Brunetta che adesso vale la pena di riflettere. Insomma: davvero Berlusconi avrebbe potuto presentarsi al G20 di Cannes con un miracoloso decreto di sviluppo e riforme, in grado di spiazzare tutti, domare uno spread schizzato sopra 550, salvare se stesso ed evitare al Paese le dure manovre poi imposte da Mario Monti? E sul serio Napolitano non sottoscrisse quell’ipotetico pacchetto di provvedimenti, scegliendo così di inguaiare il governo e il Paese? Basta rileggersi le cronache dell’epoca — i pezzi di scena e retroscena — per stabilire che le cose non andarono come ora si vorrebbe far credere. In quei giorni, dentro il governo era in corso uno scontro sulle decisioni da prendere, sui contenuti e sul metodo per vararle e presentarle in Europa. Il dualismo tra il ministro dell’Economia Tremonti e l’economista (ma non ministro titolare di responsabilità ad hoc) Brunetta sulle procedure da imboccare era molto forte. E quella divisione si rifletteva sulle decisioni del premier, che sembrava ondeggiare più verso le posizioni di Brunetta che su quelle di Tremonti. Di fatto, comunque, sul Colle non giunse mai nulla che avesse la fisionomia di un testo finale. Si parlò solo, e in via informale, di una serie di indicazioni indeterminate, raccolte presso differenti ministeri, ma non strutturate in un corpo unitario. In quella ridda di ipotesi, Napolitano aspettava quindi che la manovra fosse «coltivata» e prendesse forma definitiva. E questo accadde quando Palazzo Chigi, dopo un convulso dibattito interno, scartò la strada del decreto legge e optò per il percorso suggerito da Tremonti. Le misure necessarie a confermare gli impegni presi dall’Italia con la Ue un mese prima, sarebbero state inserite attraverso un maxiemendamento nella legge di stabilità per il 2012, di cui già si stava occupando il Parlamento e che avrebbe potuto essere varata rapidamente. L’otto novembre, alla prova dell’aula di Montecitorio, la coalizione ottenne 308 voti, fermandosi sotto la quota della maggioranza assoluta. Berlusconi ne prese atto e annunciò al capo dello Stato che si sarebbe dimesso. E, per inciso, lo fece senza evocare i complotti e le manovre che oggi utilizza per scaldare la propria campagna elettorale .
Marzio Breda