Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica 17/5/2014, 17 maggio 2014
LA DISCUSSIONE
sul bicameralismo perfetto o paritario è condizionata da preconcetti che non reggerebbero alla critica: anzitutto, la convinzione che il Governo sia privo di poteri costituzionali efficaci e tempestivi per tradurre in leggi i propri intenti; poi, che la doppia lettura comporti il raddoppio dei tempi della legislazione; infine, che la seconda lettura serva solo a insabbiare o a guastare le buone intenzioni iniziali. Se così fosse, si giustificherebbe l’abolizione o, almeno, il “senato gratis”: slogan che riassume la superficialità con la quale si affrontano argomenti serissimi. Su ciascuno di questi punti, diagnosi e prognosi non di maniera porterebbero a risultati diversi dalle presunte, ovvie verità. Ma, la questione di fondo, riguarda la sostanza politico- costituzionale. In breve: qual è la ragione della seconda
Camera? VOLENDOLA mantenere, quale può essere l’utile funzione che le si chiede di svolgere? Guardando alla storia e ai suoi esempi, si vede che i Senati esprimono o ragioni federative, nei confronti dello Stato centrale, o ragioni conservative , di fronte alla Camera elettiva. Da noi, il dibattito sul superamento del bicameralismo perfetto o paritario si è orientato pacificamente nel primo senso: “Senato delle autonomie” (“autonomie”, perché il federalismo non esiste) al posto del “Senato della Repubblica”. Perché ciò che bene funziona, per esempio, negli Stati Uniti d’America e in Germania, non dovrebbe funzionare altrettanto bene in Italia? Non esistono forse, anche da noi, buone ragioni di coordinamento tra Enti Locali, Regioni e Stato? E poi chi si arrischierebbe oggi, nel tempo della velocità, a proporre qualcosa di “conservativo”? La comparazione con gli Stati effettivamente federali — “effettivamente” significa non che hanno sovrastrutture giuridiche federali o simil- federali, ma che hanno radici nettamente definite in senso storico-politico, come gli Stati federati in Usa o i Länder in Germania o le regioni autonome in Spagna — questa comparazione, non quella puramente esteriore dei giuristi formalisti, porta a dire che la somiglianza con la nostra realtà è ingannevole. Le nostre Regioni e Amministrazioni locali, con le eccezioni che confermano la regola, sono grossi apparati politico- amministrativi che riproducono vizi e virtù dell’amministrazione e della politica nazionale: sono, in altri termini, articolazioni di queste. Non è qui il caso di ragionare sulle cause ma, se ciò è vero, che senso ha una camera delle autonomie, se non quello di rimandare e rispecchiare al centro interessi, virtù e vizi pubblici e privati che già il centro ha trasmesso alla periferia? Il pomposo “Senato delle Autonomie” si risolverebbe in un’articolazione secondaria d’un sistema
politico unico che ha da risolvere al suo interno questioni di natura principalmente finanziaria e amministrativa. Si tratterebbe d’un organo di contrattazione di risorse e porzioni di funzioni pubbliche, in una sorta di do ut des che già oggi trova la sua sede in due “Conferenze” paritetiche (Stato-Regioni e Stato-città e autonomie
locali).
Se, invece, si volesse cogliere l’occasione della riforma per un’innovazione davvero significativa dal punto di vista non “amministrativistico”, ma “costituzionalistico”, tenendo conto di un’esigenza profonda della democrazia, si potrebbe ragionare partendo in premessa dalla considerazione
che segue.
Le democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche, materiali e immateriali. Sono regimi dai tempi brevi, segnati dalle scadenze elettorali, in vista delle quali gli eletti, per la natura delle cose umane, cercano la rielezione, cioè il consenso necessario per ottenerla. Non conosciamo noi, forse, questa realtà? Debito pubblico accumulato da politiche di spesa facile nel c. d. ciclo elettorale; sfruttamento e dissipazione delle risorse naturali; devastazione del territorio; attentati alla salute pubblica; abuso dei beni comuni nell’interesse privato immediato; applicazioni a fattori vitali di tecnologie dalle conseguenze irreversibili, infornate di nomine clientelari in enti pubblici, ecc. Chi se ne preoccupa, quando premono le elezioni? Non stiamo noi, oggi, scontando drammaticamente questa tendenza fagocitatrice della democrazia?
Qui emergono le “ragioni conservative” della seconda Camera: non conservative rispetto al passato, come fu nel caso dei Senati al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze dissipatrici della Camera elettiva e questa, secondo lo schema del “governo misto”, fu affiancata dai Senati di nomina regia. Allora, i Senati
erano ciò che restava dell’Antico Regime, della tradizione e dei suoi privilegi. Ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, si tratta dell’opposto, cioè di ragioni conservative di opportunità per il futuro, per le generazioni a venire.
Chi è, dunque, più conservatore? Chi, per mantenere o migliorare le proprie posizioni nel confronto elettorale, è disposto a usare tutte le risorse disponibili per ottenere il consenso immediato degli elettori, o chi, invece, si preoccupa più dell’avvenire e di chi verrà dopo di lui che non delle sue proprie immediate fortune elettorali?
Su questa linea di pensiero, la composizione del nuovo Senato risulta incompatibile con l’idea di membri tratti dalle amministrazioni regionali e locali o eletti in secondo grado dagli organi di queste, la cui durata in carica coincida con quella delle amministrazioni regionali e locali di provenienza. Questa è la prospettiva “amministrativistica”. Nella prospettiva “costituzionalistica” la provvista dei membri del Senato dovrebbe avvenire in modo diverso. Nei Senati storici, a questa esigenza corrispondeva la nomina regia e la durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione
per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità. A ciò si dovrebbero accompagnare requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenute in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti.
Voci autorevoli si sono levate in questo senso. Anche l’idea dei 21 senatori che il Presidente della Repubblica potrebbe nominare tra persone particolarmente qualificate corrisponde all’esigenza qui sottolineata. Dal punto di vista democratico, è un’idea insostenibile per una molteplicità di ragioni che i commentatori hanno già messo in luce. Dal punto di vista funzionale, poi, è del tutto irragionevole: qualunque organo che delibera deve essere omogeneo. Se non è omogeneo, può solo formulare pareri, non esprimere una (sola) volontà. Ma l’esigenza di cui i 21 sarebbero espressione è valida e può essere soddisfatta per via di elezione, purché secondo i criteri sopra detti. Ai quali se ne dovrebbe aggiungere un altro: il numero limitato. Negli Stati Uniti, due senatori per ogni Stato federato. Perché non anche da noi? Due per Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse, dunque senza liste, “listoni” o “listini” che farebbero ancora una volta del Senato una propaggine del sistema dei partiti, con i condizionamenti e gli snaturamenti che ne deriverebbero. Questa, sì, sarebbe una novità, perfettamente democratica e tale da inserire nel circuito politico energie, competenze, responsabilità nuove. Questo, sì, sarebbe un Senato attrattivo per le forze migliori del nostro Paese che il reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini.
Un punto critico del Progetto di riforma riguarda la determinazione dei poteri legislativi e la definizione del rapporto tra le due Camere nel bicameralismo non paritario. Il nuovo articolo
70 della Costituzione prevederebbe la supremazia politica della Camera, ma in un labirintico groviglio di ipotesi, in cui si intrecciano comunicazioni, iniziative di minoranze parlamentari, proposte di modifica, andirivieni scanditi da termini prefissati, materie sulle quali le deliberazioni del Senato a maggioranza assoluta possono essere rovesciate dalla Camera, a sua volta a maggioranza assoluta, eccetera. Non si può qui possibile discutere la ragionevolezza di questo estremo “giuridicismo” applicato a organi politici. Ci si deve chiedere se potrebbe funzionare e se, nel caso in cui il Senato volesse non ridursi a vuoto simulacro, non determinerebbe frequenti conflitti. Che senso avrebbe, poi, il coinvolgimento del Senato quando già è nota l’esistenza d’una maggioranza alla Camera, in grado comunque d’imporre la propria scelta? Un lamento, una protesta fine a se stessa, tanto più in quanto la legge elettorale sia tale (ma sarà tale?) da costruire più o meno artificialmente vaste maggioranze “blindate” che non hanno bisogno di confrontare i loro pro con i contra d’un Senato capace solo di lamentazione. Futilità. Una seconda Camera di facciata, così poco rilevante che il Governo, a garanzia della propria linea politica, non ha nemmeno bisogno della questione di fiducia che, infatti, scomparirebbe.
Nella prospettiva “costituzionalistica”, la convivenza delle due Camere si potrebbe risolvere così. Alla Camera dei deputati, depositaria dell’indirizzo politico, sarebbe riservato il voto di fiducia (e di sfiducia). Le leggi sarebbero approvate normalmente in una procedura monocamerale. Il Senato, nei casi — si presume di numero assai limitato, ma non elencabili a priori — in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti che rientrano nella sua primaria responsabilità, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Procedura bicamerale, dunque, ma solo eventuale,
quando effettivamente serve.
( Questo testo è la
sintesi di un documento inviato dal professor Gustavo Zagrebelsly al ministro per le Riforme Maria Elena Boschi)