Bernardo Valli, la Repubblica 16/5/2014, 16 maggio 2014
DILEMMA GERMANIA LA “SUPER-POTENZA”
BERLINO
Il tema è l’Europa tedesca. Da affrontare subito con un interrogativo. Esiste sul serio? Con un tono un po’ provocatorio e tutt’altro che soddisfatto, il sociologo Ulrich Beck non sembra avere dubbi. Per lui l’impronta, anche se non gradita o auspicabile, è ormai stampata su tutti noi, mezzo miliardo di cittadini distribuiti in ventotto nazioni.
Grazie alla potenza economica, la Repubblica federale è diventata la massima istanza, anche politica. La crisi dell’euro, la minaccia di fallimento della moneta comune a diciotto paesi, ne ha fatto il nostro tutore. Un tutore non sempre gradito. A volte detestato.
A tre vecchi berlinesi, conosciuti giovani in una chiesa protestante quando nella Germania comunista animavano gruppi di sinistra in favore della democrazia ma non del capitalismo occidentale, a quei tre amici ritrovati un po’ ingrigiti non piace appartenere a un paese accusato di egemonia. L’espressione “leadership della Germania” suona come un’offesa ai loro orecchi. Anima i demoni della storia.
Li rassicuro, questa volta non ci sono rumori cadenzati di stivali. Già, mi dicono, ma c’è chi ha paragonato Angela Merkel a Bismarck o addirittura a Hitler o ha detto che noi tedeschi neghiamo l’esistenza dei campi di sterminio. Tutti imbecilli, li rassicuro. L’Europa appare tedesca, sotto l’influenza della Germania, nel senso che si adegua alla disciplina di bilancio, alla cultura di stabilità, imposta da Berlino nella bufera (e sotto la spinta) dei mercati finanziari.
Voi tedeschi, aggiungo, avete garantito la moneta unica, e il sistema neo-liberale annesso, imponendo un’austerità che riequilibra i conti ma crea disoccupati. Comporta una responsabilità pesante l’avere assunto il ruolo delle istituzioni che avrebbero dovuto sorvegliare e coordinare le economie e finanze nazionali. Neppure la Germania ha in realtà desiderato le mancate istituzioni di tipo federale. L’avrebbero costretta a condividere i debiti dei paesi deboli. Inoltre il vuoto istituzionale ha offerto a Berlino l’opportunità di colmarlo, essendo la sola capitale con una firma solida, in grado di decidere per tutte le altre. Insomma si ha l’impressione che abbiate cavalcato la crisi. Che ne abbiate approfittato. Dopo anni di austerità, non pochi euroscettici o eurofobi andranno alle urne tra dieci giorni inseguiti dai fantasmi di un’Europa tedesca che vedono imporsi a Bruxelles e che respingono.
I tre amici sono afflitti dalle mie parole. Sono professionisti (un medico ospedaliero, un piccolo commercialista, un direttore di scuola privata), appartengono alla Germania che lavora molto e consuma poco. La sobrietà delle loro abitazioni rivela una borghesia media, con i cimeli delle vacanze a Rimini o a Torremolinos. Risparmiano per andare a vivere nei paesi caldi, mediterranei, quando saranno in pensione. Si sentono e sono cittadini normali. Sono un’espressione non tanto della Germania che ci capita di definire svizzera, quanto di una società che «vuole vivere in pace con se stessa». Nell’89, prima della caduta del Muro, nella parrocchia protestante organizzavano manifestazioni con la preoccupazione che non apparissero in favore della Germania consumista, di cui Berlino Ovest era l’attraente vetrina per molti tedeschi orientali. Loro puntavano su una “democrazia sobria”. Li chiamai allora cittadini della Germania di Kant. Anche se a Kant capitò di definire «sublime» la guerra, ricorda Tony Corn, che ha insegnato l’Europa agli americani, all’US Foreign Service Institute di Washington.
Di Germanie ce n’è tuttavia anche un’altra: quella orgogliosa di avere superato, secondo Forbes , gli Stati Uniti sul piano industriale, e di essere una “piccola Cina” perché come la grande nazione asiatica esporta più della metà di quel che produce. La compongono le élites, paladine di un neo liberalismo basato sull’austerità e la stabilità. Il ministro delle finanze, Wolfgang Schaeuble, è considerato il loro Lutero. A questa seconda Germania può capitare di sentirsi troppo grande per l’Europa ed essere quindi animata dall’inevitabile desiderio di occupare nel mondo uno spazio adeguato alla sua espansione economica. Col tempo potrebbe allentare gli ormeggi europei, se le esportazioni nella Ue dovessero calare ancora (dal 65% nel 2007 sono scese al 57% nel 2012) e invece aumentare quelle negli altri continenti.
Essa affonda però le radici della sua coscienza storica, con tutto quel che abbraccia, qui da noi. Sa quindi che la nazione tedesca non può infliggere altre ferite all’Europa, sia pure indisciplinata. Conta nomi di antica nobiltà o di grande industrie per i quali la tradizione sopravvive ai bilanci di fine d’anno. I miei normali amici berlinesi affermano che la Germania è più europea di quanto l’Europa sia tedesca. Lo è più di tanti altri paesi vicini. Stando ad alcuni sondaggi, forse perché soddisfatti del loro governo e dei risultati economici conseguiti, i tedeschi non sono poi tanto scettici nei confronti del processo di integrazione. Gli eurofobi d’altre contrade non si stupiscono. L’Unione europea non è una loro succursale? La cancelleria federale, a fianco della Porta di Brandeburgo, è la meta obbligata dei dirigenti politici che spesso snobbano la Commissione di Bruxelles. Gli eurocrati sono entrati in letargo nel secondo semestre dello scorso anno nell’attesa dei risultati elettorali tedeschi.
Assomigliavano a notabili di corte sfaccendati ai piedi di un trono vacante.
I candidati al potere, come Matteo Renzi alla vigilia di assumere la presidenza del consiglio, si presentano ad Angela Merkel, la quale in verità restituisce puntuale le visite. Il ministro francese delle finanze, Michel Sapin, si consulta col collega Wolfgang Schaeuble sul piano di risparmio (cinquanta miliardi) quando Manuel Valls, il primo ministro, non ne ha ancora parlato agli elettori della Quinta Repubblica. I greci, aggrediti dalla crisi, non perdono tempo, saltano José Manuel Barroso e vengono direttamente qui. Anche per i problemi di politica internazionale più scottanti, come l’Ucraina, cinesi e americani si consultano con Berlino. Parigi è una tappa successiva. Cosi Londra. Cosi Roma. Quando si tratta di contenere le ambizioni russe, i polacchi seguono lo stesso percorso. I dirigenti dei paesi baltici e dell’Europa centrale fanno altrettanto. Chi detta la posizione europea da tenere nei confronti di Vladimir Putin è la cancelleria, anche perché essa esprime una linea prudente, ferma nelle parole ma vaga nei fatti, condivisa in generale dai paesi dell’Unione che, come la Germania, hanno bisogno del gas russo, da scambiare con prodotti industriali. Nonostante le condanne, e le sanzioni mirate, la Germania continua a partecipare a convegni economici in Russia e a concludere affari con gli oligarchi di Mosca e Pietrogrado. Gli altri paesi europei si comportano allo stesso modo. Putin, pur non assecondandola, parla puntualmente con Angela Merkel. La quale diventa svizzera quando le minacce si appesantiscono. L’Europa, Germania compresa, si trasforma allora in un protettorato americano.
All’origine del ruolo dominante di Berlino non c’è soltanto la crisi. Né la moneta unica è stata un espediente tedesco. Ricalcata sul marco, ha imposto una gara pesante alle economie più deboli, abituate alle svalutazioni: una specie di maratona in cui i concorrenti sfiatati sono stati distanziati, hanno corso il rischio di essere esclusi. Furono i francesi (François Mitterrand) a volere l’euro, per ancorare la Germania riunificata all’Europa comunitaria. I tedeschi (Helmut Kohl) lo dettero in pegno malvolentieri. Poi, è vero, se ne sono serviti ampiamente. La nuova valuta, stabile, ha favorito le loro esportazioni e ha finanziato in parte il recupero delle province orientali ex comuniste. La Germania ha esibito i suoi muscoli a partire dalla riunificazione. Con l’abbandono di Bonn, e delle quiete sponde del Reno, e con il ritorno nella prussiana Berlino, a settanta chilometri dal confine polacco, la ritrovata capitale tedesca ha spostato a Est il baricentro dell’Europa, fino ad allora marcato da Parigi, adesso troppo spostata a Ovest, ma soprattutto confrontata a una Germania non più divisa e riabilitata. L’allargamento dell’Unione ai paesi orientali ex comunisti ha accresciuto ulteriormente l’influenza tedesca.
Alla nuova situazione geopolitica vanno aggiunte le sofferte ma sopportate riforme del mercato del lavoro attuate da Gerhard Schroeder, l’ex cancelliere socialdemocratico. Riforme che hanno aumentato il precariato e ridotto i costi, quindi i salari, e che hanno consentito alla Germania di affrontare la crisi con una maggiore competitività rispetto agli altri paesi.
Bernardo Valli, la Repubblica 16/5/2014