Francesco La Licata Rino Giacalone, La Stampa 16/5/2014, 16 maggio 2014
“ROSTAGNO UCCISO DALLA MAFIA” LA VERITÀ DOPO I DEPISTAGGI
Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia. Non fu un delitto ascrivibile alle condotte contorte di Istituzioni infedeli, non porta a niente la cosiddetta «pista interna» (gli ipotetici dissidi tra i leader che governavano la comunità Saman), non poggia su nessuna prova certa il sospetto che il sociologo-giornalista sia stato eliminato perchè in procinto di svelare indicibili retroscena sui suoi compagni di Lotta Continua e sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi.
Questo il senso del processo che si è chiuso ieri a Trapani sull’assassinio avvenuto in contrada Lenzi 26 anni fa davanti all’entrata della comunità per il recupero di tossicodipendenti dove Rostagno svolgeva la sua attività. Ma Mauro non faceva soltanto questo. Faceva soprattutto il giornalista (lavorava ai notiziari di una tv privata trapanese) e «parlava troppo», ha ricordato il pm Gaetano Paci.
Rostagno era un corpo estraneo nella palude trapanese, blocco monolitico dedita ai circoli privati, agli interessi finanziari, alle consorterie e alle massonerie. Ci sono voluti un quarto di secolo, 67 udienze, 144 testi e 4 perizie per giungere ad una «semplice verità» che, invero, poteva essere conquistata molto tempo prima se le cose «fossero andate nel verso giusto».
Ma così non fu, sin dalla prime indagini, quando - troppo sbrigativamente - i carabinieri esclusero la pista mafiosa solo perché l’arma del delitto, un fucile automatico, era esploso tra le mani dei killer. E la mafia, si sa, non commette certi errori. Ma il pm ha spiegato che anche Cosa nostra, in più d’una occasione, ha commesso errori, si pensi soltanto al fallito attentato contro il vicequestore Rino Germanà, neppure ferito da un’ondata di fuoco esplosa da killer professionisti e dirigenti della cupola mafiosa.
Ma perché, allora, le indagini si persero per strada, permettendo persino una «seconda morte forse più crudele» della vittima, tirata dentro squallide storie private (la compagna Chicca Roveri, prima arrestata e poi scagionata) alla fine rivelatesi veri e propri depistaggi. Una risposta l’accusa l’ha data: «Abbiamo, in qualche modo, processato anche le indagini fatte negli anni scorsi... le sottovalutazioni inspiegabili, le omissioni, le miopie», per arrivare alla conclusione che «non si può prescindere dall’attività giornalistica di Rostagno». E in un crescendo duro, rivolto ai carabinieri: «O ammettono che non hanno saputo fare il loro mestiere o c’è dell’altro».
Già, il fucile scoppiato. Paradossalmente è stata proprio quell’arma a provocare la svolta nelle indagini, più svolte precipitate nel pericolo dell’oblio. Si deve ad un poliziotto ostinato, quella svolta. Leonardo Ferlito, investigatore della squadra mobile dei vicequestore Linares, che ebbe l’intuizione di eseguire una serie di comparazioni tra i reperti del delitto Rostagno con quelli di altri omicidi successivi al settembre del 1988, data dell’assassinio del sociologo.
Sono state le perizie a portare i magistrati a Vito Mazzara, considerato l’esecutore materiale, e al «capo», Vincenzo Virga. Se fossero rimasti in vita, sarebbero stati processati anche il padre di Matteo Messina Denaro, don Ciccio, che - come ha raccontato il pentito Vincenzo Sinacori - definì Rostagno «una camurria», cioè un problema da risolvere.
Fu la mafia, ha ripetuto fino allo sfinimento il pm, sgombrando il campo dalle due principali suggestioni, ritenute «depistanti». La famosa indagine definita «Codice rosso» che portò ad una vera e propria retata di uomini e donne della comunità Saman, poi ancora la falsa pista che faceva riferimento ad una storia di vendetta interna tra tossicodipendenti. E, infine, la «bufala» della presunta verità su Lotta Continua.
Forse bastava leggere bene gli articoli che Rostagno scriveva sugli affari della buona società trapanese.
Francesco La Licata Rino Giacalone, La Stampa 16/5/2014