Francesca Paci, La Stampa 16/5/2014, 16 maggio 2014
“SOTTOTERRA PER UNA PAGA DA FAME SOPRAVVIVIAMO APPELLANDOCI A DIO”
A pochi passi dall’ospedale di Soma affollato dalle mogli dei feriti con i larghi pantaloni a fiori c’è il monumento al minatore, un uomo con il piccone sotto al quale gli abitanti hanno deposto bibite, panini e maschere a gas, quello che secondo i più semplici tra loro avrebbe aiutato i sepolti vivi a resistere fino all’arrivo dei soccorritori. Da due giorni, invece, la terra avvelenata a sud-ovest della Turchia restituisce solo cadaveri.
«Siamo l’anima di questa comunità ma solo chi ci lavora sa cosa significhi stare là sotto, gattonare nei cunicoli, bere litri d’acqua per togliersi quel sapore nero dalla bocca, sperare in qualche turno di notte per vedere la luce del giorno», racconta il 35enne Veysel mentre una piccola folla vestita di scuro si raduna per lo sciopero generale convocato dai sindacati contro il governo, accusato di aver trascurato la sicurezza. Veysel dice che in dieci anni di servizio non ha mai incrociato un ispettore. La Soma Holding, titolare dell’impianto dalla privatizzazione del 2005, insiste d’essere in regola, ma tutti ricordano l’intervista in cui mesi fa il proprietario Alp Gurkan si vantava di aver portato il costo di una tonnellata di carbone da 120 a 24 dollari.
Il tempo a Soma si è fermato assai prima di mercoledì, quando un probabile cortocircuito ha trasformato la miniera, «madan», in un cimitero. Il premier Erdogan, che contava sugli orologi senza lancette di una popolazione contadina e fedelmente affiliata al suo partito anche in cambio di pacchi di cibo e sacchi di carbone, deve ricredersi. Nei discorsi ufficiali ripete che «questi incidenti accadono» e che tra il XIX e il XX secolo erano quasi la norma in America, nel Regno Unito, in Francia, dove nel 1906 morirono 1099 minatori. Ma parla di cento e passa anni fa. E forse il nervosismo crescente con cui reagisce alle contestazioni (circola un video in cui schiaffeggerebbe la figlia di una vittima di Soma) tradisce l’imbarazzo. Perché basta ascoltare i soccorritori che sudano per estrarre gli ultimi corpi (100? 200? 300?) per capire che Soma ricorda più le miniere ottocentesche di Zola di quelle cupe ma moderne dello Yorkshire su cui la Thatcher si costruì la fama di Lady di ferro.
«La struttura non era equipaggiata», afferma il volontario Mehemet seduto tra le transenne da cui, scortato da 20 auto blu, si è appena allontanato il presidente Gul. Spiega di aver tirato fuori una decina di corpi da una camera di sicurezza assai poco sicura: «Gli uomini si erano rifugiati lì perché il fumo e il fuoco avevano già invaso le gallerie, ma le maschere a ossigeno non erano abbastanza e se le sono passate a turno prima di morire, li abbiamo trovati uno sopra all’altro». Secondo la Camera degli ingegneri minerari solo 4 su 400 miniere turche sono dotate di camere di sicurezza con cibo e ossigeno per resistere almeno un mese.
«A Soma una camera di sicurezza c’è, sarà grande 5 o 6 mq, ma non pensi mai che ti serva, sopravvivere è una questione tra te e Dio», ragiona Yasser dopo aver baciato la terra che sta per ricoprire la bara del collega Mehmet Serturk. La think tank Tepav rivela che i morti per mq nelle miniere di carbone turche sono il 7,2% contro l’1,27% della Cina e lo 0,04% degli Usa. Una cifra cresciuta del 40% tra il 2002 e il 2011. L’opposizione punta l’indice contro il governo ma già nel 1995 il Paese rifiutò la Convenzione dell’Ilo sulla sicurezza nelle miniere ratificata tra gli altri da Russia e Zimbawe.
Piangono piano i minatori radunati al cimitero cittadino, rassegnati a un destino antico, l’unico in assenza di alternativa. Ismail Duran, 41 anni, mostra il foglio con il salario: «Lavoro sei giorni alla settimana 8 ore al giorno per 976 lire turche (340 euro)». Gli insegnanti della vicina scuola materna, dove i bimbi disegnano papà con la faccia nera, guadagnano quasi tre volte tanto. Ma Ismail è nato tra i campi e dopo la raccolta delle olive quella del carbone è stata un balzo in avanti per la famiglia.
La miniera nutre i suoi figli e se ne nutre. «I minatori non denunciano le condizioni a cui sono sottoposti per paura di perdere il lavoro», attacca Gonlil Karakuzu nella sede del partito di opposizione Chp. Impiegando 7 mila persone, «madan» mantiene più o meno ogni famiglia della provincia. Ma mantiene anche Soma fuori dal tempo.
Francesca Paci, La Stampa 16/5/2014