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 2014  maggio 16 Venerdì calendario

COLOMBIA QUANTO VALE LA PACE


È sempre il conflitto armato interno la principale variabile della politica colombiana. Dopo il decennio di Alvaro Uribe – pugno di ferro contro la guerriglia delle Farc – l’attuale presidente Juan Manuel Santos ha cambiato strategia e puntato sul processo di pace, in corso da quasi due anni a Cuba. Ora che mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali (primo turno il 25 maggio), le possibilità di rielezione di Santos si sono ridotte. E proprio a causa dello stallo nel negoziato di pace. Secondo gli ultimi sondaggi, la leadership dell’attuale presidente si è bloccata attorno al 23-25 per cento dei consensi e il suo principale avversario Oscar Ivan Zuluaga (a destra nella foto) lo ha quasi raggiunto. Zuluaga, già ministro dell’Economia, è l’uomo scelto dall’ex Uribe per cancellare la politica di dialogo con le Farc e tornare all’opzione militare. Quasi certo, a questo punto, che la sfida tra i due si sposterà al secondo turno, previsto per il 15 giugno. A fine 2012 il governo di Santos e la guerriglia avevano fissato un cronogramma, con cinque punti di discussione, e l’obiettivo di chiudere in un anno. Tutto però si è arenato da mesi sul terzo punto, quello che riguarda la consegna delle armi e l’integrazione degli ex guerriglieri nella società. Nel frattempo gli scontri armati in Colombia non sono cessati. Santos potrebbe dunque aver sbagliato scommessa, come sostengono molti analisti, e non è strano che ad avvantaggiarsene sia proprio la parte politica che più avversa il negoziato. Secondo un altro sondaggio, il 61 per cento dei colombiani non crede che il negoziato con le Farc andrà a buon fine. A peggiorare la situazione per Santos c’è poi lo scandalo che ha travolto il suo esperto di marketing politico, il venezuelano Juan José Rendon, accusato di legami con il narcotraffico. È sospettato di aver ricevuto 12 milioni di dollari da un boss per favorire rese di criminali a pene scontate.

libia
Non c’è pace per la Libia del dopo-Gheddafi. L’ultima bizzarria è stata la presenza, per circa 48 ore, di due primi ministri in carica contemporaneamente. Ciò è accaduto dopo che l’ex capo del governo Abdullah al-Thinni si era dimesso il mese scorso in seguito a un fallito attentato contro la sua persona e alle continue minacce di morte ricevute anche contro i membri della sua famiglia. Il parlamento libico provvisorio (il Congresso nazionale generale), dopo una serie di sedute, sembrava essere riuscito finalmente a nominare un nuovo primo ministro, con soli 121 voti a favore (la maggioranza si raggiunge con 120 voti), accordandosi sul nome di Ahmed Maetig, quarantaduenne uomo di affari proveniente dalla città di Misurata. Neanche il tempo di prestare giuramento, che è arrivato il coup de théâtre: alcuni membri dello stesso parlamento che lo avevano eletto, tra cui il vicepresidente del Congresso Ezziden al-Awami, hanno dichiarato la votazione nulla, in quanto in realtà sarebbe stata sostenuta soltanto da 113 membri del parlamento. Risultato? Al-Thinni è stato invitato a rimanere in carica ad interim in attesa di una nuova nomina, mentre Maetig continuava a resistere: la Libia aveva di fatto due primi ministri. La situazione sembra essersi temporaneamente risolta con l’intervento del presidente del Congresso Abu Sahmain, che ha dichiarato valida la votazione che aveva nominato Maetig. Tutto risolto? In realtà no, dal momento che, dal punto di vista politico, il nuovo primo ministro dovrà adesso formare un nuovo governo e passare ancora al vaglio del Congresso per il voto di fiducia. Dal punto di vista della stabilità del Paese, inoltre, non sembrano registrarsi significativi passi in avanti. La stessa vicenda del doppio primo ministro ben rappresenta la confusione che regna nel Paese, ma a preoccupare ancora di più è la situazione della sicurezza. In un contesto ancora non stabilizzato, infatti, la continua presenza di milizie armate e gruppi radicali islamisti (provenienti anche da Paesi vicini come la Tunisia e l’Egitto), rischia di far saltare qualsiasi progetto di transizione democratica di lungo termine e di rendere la Libia una sorta di buco nero all’interno del Nord Africa. Basterà l’ennesimo “nuovo” primo ministro a risolvere la situazione?