Gigi Riva, L’Espresso 16/5/2014, 16 maggio 2014
FATE LA RIVOLUZIONE CON LA FELICIT
[Colloquio con Luis Sepùlveda] –
Sepùlveda, siamo abituati a pensare che la felicità sia questione intima, che non dipende dal contesto. Il vostro, suo e di Petrini, è un cambio di paradigma.
«Solo minimamente la felicità è uno stato d’animo individuale. Quando uno fa bene l’amore ad esempio, ma dura poco, giusto l’attimo del coito».
Tra questa e la felicità collettiva c’è relazione?
«Sono in continuo dialogo. Un individuo che ha conquistato una felicità solo personale corre sempre il rischio che sia messa in pericolo. Ad esempio se va per strada e vede qualcuno che rovista nella spazzatura alla ricerca del cibo ecco che quella felicità si interrompe. Non posso star bene se altri sono ridotti così».
Vale sono se si è empatici col resto dell’umanità. Altrimenti ci si può rifugiare nell’egoismo che pure è insito nell’uomo.
«Ma non esiste felicità senza empatia. Uno non può essere felice in modo clandestino. E vale fin dagli albori della storia. Quando ci sono stati almeno due uomini di Neanderthal hanno cominciato a comunicare per scoprire cosa potevano fare insieme. E già questo primo passo altro non è che una tensione verso la felicità, che nel loro caso era il sopravvivere nelle condizioni date. La felicità non è uno stato empirico ma una faticosa ricerca quotidiana. Sono felice quando sento che sono un uomo giusto, ho fatto una cosa giusta. In questo senso la felicità coincide con la comunità. Non è possibile una felicità senza paragone, se la mia felicità non si riflette nell’altro non è».
Estremizzando il suo pensiero il capitalismo che mette l’individuo al centro di tutto, sarebbe contro la felicità.
«L’ideologia capitalista ti dice che hai la possibilità di diventare “l’unico” individuo al centro di tutto. Il che è anche peggio. E vado oltre. Lo stesso comunismo, quando è diventato capitalismo di Stato come nel caso cinese, è pure contro la felicità perché questa non è determinata dall’accumulazione di beni ma da un piacere che parte dalle piccole cose».
Nel libro la lentezza viene usata in opposizione alla velocità e lei del resto ha scritto un racconto su una lumaca. Recuperare per sé il tempo è l’anticipo della letizia?
«Il tempo libero, che il capitalismo definisce tempo non produttivo, è quello in cui l’essere umano si proietta. Gli anarchici parlano addirittura di diritto al tempo liberato».
Il paradosso dei nostri tempi è che il capitalismo ha prodotto disoccupazione.
«E quello non è tempo liberato ma angoscia per la mancanza di lavoro. Nel posto dove siamo (al Lingotto di Torino, durante il Salone internazionale del Libro, n.d.r.) oggi passano scrittori, giornalisti, lettori, ma 30 anni fa era pieno di lavoratori del Sud che non parlavano italiano e andavano incontro a un’assimilazione culturale velocissima, dimenticavano la loro identità ed erano come il Chaplin del film “Tempi moderni”. Perdevano qualcosa, certo per permettere che si generasse qualcosa, il proletariato torinese, l’organizzazione sindacale. Poi è morta la fabbrica, è morto il partito e il sindacato ha vissuto l’interruzione traumatica di quella che si chiamava lotta di classe. Basata sullo sciopero: io non produco, tu non guadagni. Ora non vale più perché col neoliberismo è arrivata la delocalizzazione delle aziende e si va a guadagnare da un’altra parte. Ci si è dimenticati di tutto quello che è stato conquistato, ci si è dimenticati che ci vorrebbe una lotta continua per mantenere i diritti acquisiti».
La povertà non sembra entrare, per lei, nei parametri con cui definire l’infelicità.
«Il contrario della povertà non è la felicità perché la felicità ha bisogno di un grado di consapevolezza».
Però il fatto che, stando alle statistiche Onu, la povertà diminuisca è motivo di sollievo.
«Non è vero che diminuisce, aumenta. In Spagna, dove ora vivo, ci sono due milioni di persone che non guadagnano nulla, non hanno assistenza sociale e sono ridotte a cercare da mangiare tra i rifiuti».
Vale per l’Occidente non per tutto il globo.
«È significativo perché succede in Occidente, del resto del mondo che ne sappiamo? I profughi di Lampedusa non fuggono per caso dalla povertà?».
Lei voterà, in Spagna alle elezioni europee. La sinistra non sembra in grado di fornire, soprattutto ai giovani, risposte su come arrivare a quella felicità collettiva che descrive.
«La sinistra deve allontanarsi dal capitalismo. Non potrà farlo in modo traumatico, ma cominciare a costruire un’alternativa. Oggi, e per 30 anni, dovrà affrontare questioni pratiche: il salario minimo di 800 euro, la Tobin tax per evitare una nuova crisi del sistema finanziario. Stavolta si deve partire dal pratico per arrivare all’ideologia, fare il percorso inverso rispetto a quello del Novecento».
Quanto al pragmatismo di sinistra lei sembra rimpiangere, nel libro, l’esperienza tragicamente troncata di Salvador Allende.
«Perché Allende cercava la felicità. Se il suo modello si fosse imposto, per gli Stati Uniti, per il capitalismo sarebbe stato un disastro: per contrastare il nostro esperimento avrebbero dovuto postulare un’idea di società assai più intelligente. In questo senso eravamo pericolosi e da fermare Era molto più facile, per loro, combattere il sistema sovietico».
Sepùlveda, lei è ottimista per il futuro?
«Sì. Vedo una parte importante dei giovani che pensano attivamente e in un modo diverso. Vedo l’allegria del movimento degli indignados che, in Cile ad esempio, hanno portato il Parlamento Camila Vallejo, la leader degli studenti, e diversi altri suoi compagni».
Ma il Cile non è il pianeta intero.
«Può essere paradigmatico però. È un occidente in miniatura. Il Paese si unisce rapidamente, davanti a catastrofi come l’incendio di Valparaiso o un terremoto arde la fiamma della solidarietà. E poi c’è l’Uruguay del mio amico Pepe Mujica, certo ha tre milioni di abitanti ma ha scelto come parola d’ordine lo slogan che la povertà deve essere degna. E sotto quella dignità non si scende».
Restando in Sudamerica. Fra poco il Brasile ospiterà i Mondiali di calcio e ha una pesante crisi sociale. Ma, sostengono un po’ tutti, se li vincerà la felicità sarà tale da dimenticare i problemi. Che felicità è quella?
«Non è felicità. Usiamo un sinonimo per favore. Euforia può andare, dura una notte come la sbornia. Poi ci si risveglia. La felicità è una catena di elementi. Una vittoria sportiva è un bellissimo momento transitorio. Di cui si dichiareranno felici Adidas, Nike, i costruttori dei campi di calcio. E quelli degli alberghi». n
Per spiegare quanto sia rivoluzionaria la felicità, Luis Sepùlveda, 64 anni, scrittore cileno, racconta con la stessa affabulazione feconda dei suoi romanzi, la trama di un film argentino degli Anni Ottanta ambientato nel periodo della dittatura. C’è un uomo, di professione inventore, che vive in un villaggio sperduto della Patagonia. Ogni volta che fa una scoperta si reca speranzoso a Buenos Aires per brevettarla e ogni volta se ne torna con la coda tra le gambe per lo sconforto dei suoi compaesani illusi di poter arrivare al benessere grazie al suo genio: ha promesso di redistribuire fra tutti l’eventuale ricchezza. Una volta il marchio è già stato depositato, un’altra non viene capito. Un giorno raduna tutta la popolazione davanti a una lavagna e si mette a scrivere quella che sembra una lunghissima formula chimica. Trionfante annuncia: «È la formula della felicità». Riparte per Buenos Aires e per diverse settimane non dà più notizie. Ce l’avrà fatta e se la starà spassando nella capitale? Niente di tutto questo. Riappare pesto e sanguinante: lo hanno torturato perché il Potere non può permettere che i sudditi siano felici, è il massimo dell’eversione.
Se Sepùlveda parla di un tema apparentemente lontano dal suo profilo di autore impegnato e di sinistra e con un passato da guerrigliero (fece anche parte della guardia personale di Salvador Allende) è perché assieme a Carlo Petrini, suo coetaneo, fondatore di “Slow food”, ha scritto “Un’idea di felicità” (vedi box a pagina 66) il cui assunto fondamentale è che ciascuno ha diritto a quello stato di benessere e di piacere, a cui si arriva attraverso «piccole soddisfazioni» e che può essere perseguito attraverso scelte pubbliche. In altri tempi si sarebbe detto: il personale è politico.