Francesca Sironi, L’Espresso 16/5/2014, 16 maggio 2014
NO, LA VITA NON E’ TUTTA UN QUIZ
È bastato che il ministro dell’Istruzione evocasse la rivoluzione francese per far saltare tutti sulle barricate. E sulla prospettiva di rimpiazzare i temutissimi test di ammissione alla facoltà di medicina con una selezione alla parigina è scoppiata la bagarre. Stefania Giannini è stata chiara: aboliamo il quizzettone da 60 domande in 100 minuti, le forche caudine per iniziare la carriera da dottore. E al suo posto procediamo alla francese: tutti dentro con un implacabile sbarramento dopo un anno quando chi non ha raggiunto i risultati è fuori. Dodici mesi, anziché un giorno, per valutare con più calma le competenze dei futuri medici. Perché, certamente, il numero chiuso non è in discussione.
È dal 2000 che il numero di coloro che possono diventare medici e operatori sanitari in genere è deciso dal governo, così come quello dei veterinari e degli architetti. Tre professioni a numero programmato, per studiare le quali è necessario superare un test a crocette che spazia dalla logica alla matematica. Ma la necessità di regolare l’accesso nelle aule universitarie ha varcato da tempo le direttive statali: per i corsi in cui sono previsti laboratori tecnici, attrezzature e tirocini obbligatori (come a Ingegneria) gli atenei possono stabilire da soli il proprio numero chiuso e programmare autonomamente gli ostacoli per la selezione; mentre con la riforma Moratti del 2003 è stata data a tutti i dipartimenti la possibilità di introdurre porte e cancelli, tanto che oggi anche per diventare filosofi o scrittori bisogna ormai superare da subito un quiz.
CAMICI BIANCHI NEL PANICO
Quest’anno a tentare il salto verso la strada del camice bianco, si sono presentati in 64 mila. Solo 10.551 sono stati accettati; il 20 maggio scopriranno in quale città, visto che la graduatoria oggi è nazionale: gli studenti scelgono l’ateneo che preferiscono e più sono alti in classifica più probabilità hanno di entrare davvero in quello che desiderano. Per tutti gli altri 50 mila e passa sono iniziate le proteste. Il caso più contestato è quello di Bari, dove uno dei test è arrivato nell’aula della prova manomesso. I respinti hanno presentato un maxi-ricorso collettivo, che punta a dimostrare come l’inghippo sia servito per dare una mano ai “figli di”. Non sarà l’unica causa in tribunale: il web è pieno di piccoli annunci di avvocati che invitano i bocciati a presentare (a caro prezzo) un’istanza al Tar, per ottenere così il proprio posto. Negli strali dei no-Test è finita anche una delle quattro domande (sulle 60 totali) di cultura generale, che chiedeva ai candidati di sapere chi è Noam Chomsky. Apriti cielo: a un pediatra serve conoscere il celebre linguista oppure no?
Il fronte dei contrari si fa forte anche dei tanti scandali che hanno caratterizzato la prova negli ultimi anni: dall’indagine della procura di Bari che ha mostrato come una rete di 27 persone garantisse per 30mila euro l’ingresso a medicina a Napoli, Foggia e Verona, fino alla più leggera indignazione collettiva per la domanda di cultura generale trovata nel 2011 nel test di accesso al corso di Professioni sanitarie della Sapienza di Roma, quando ai candidati vennero chiesti i gusti tipici serviti dalla “grattachecca di Sora Maria”.
PARIGI O CARA
Ce n’è abbastanza perché a ogni giro di test si scatenino polemiche a non finire. Alimentate certamente, in primo luogo, dal grande numero di giovani respinti. E così Stefania Giannini ha detto basta. Al ministero si lavora a un nuovo metodo di accesso alle professioni più ambite dove è escluso che si possa rinunciare al numero chiuso. E il modello è quello francese. Dove c’è un corso comune a tutte le discipline sanitarie (medicina, farmacia, odontoiatria), durante il quale gli studenti sono sottoposti a due test: il primo dopo sei mesi, l’altro alla fine dell’anno, entrambi basati sulle lezioni frequentate durante il semestre, anche se spesso in videoconferenza perché in aula non c’è spazio. Nel 2012 hanno seguito questo pezzo di strada 55.558 ragazzi. E alla fine solo il 15 per cento ha potuto continuare. Tutti gli altri si sono visti respinti. E solo due bocciati su dieci riescono ad accedere direttamente a un altro corso di studi. Così la maggioranza dei ragazzi perde un anno e resta nel limbo.
Possibile tutto questo in Italia? «Sì», risponde Giuseppe Novelli, rettore di Tor Vergata: «Anche da noi i primi esami sono chimica, biologia, matematica, e non riguardano la pratica clinica. Per cui sarebbe sostenibile». Anche se con molti “ma”: «Se dovessimo adottarlo dovremmo sostituire i quiz con veri esami. E assicurare a chi fallisce un percorso alternativo».
Già, perché così com’è il modello gallico è finito sotto processo anche in patria. Frederic Dardel, presidente dell’università di Parigi Descartes, è arrivato a definirlo una «macelleria pedagogica»: «Abbiamo 2700 frequentanti per 490 posti», ha spiegato in un’intervista a “Le Monde”: «Per dare futuro a pochi eletti e produrre migliaia di sconfitti». Per i quali, però, il governo di Parigi ha approvato quest’anno una riforma, che dà agli atenei la possibilità di valutare alcune competenze già ad ottobre. L’obiettivo è proporre ai più scarsi una via d’uscita al più presto, prima che i turbo-ripassi di fine semestre rovinino loro la salute o gli istituti privati che promettono il successo spillino loro altri soldi. Ma i sindacati studenteschi accusano: «Così si torna al test d’ingresso».
COINVOLGERE I MEDICI
Il problema vero che alimenta tutte queste discussioni, un po’ tecniche, è di importanza primaria per tutti: come si fa a capire chi ha le carte giuste per diventare un buon medico? «Le attuali prove vanno sicuramente migliorate», sostiene Maria Chiara Carrozza, deputata Pd ed ex ministro all’Istruzione: «Andrebbero coinvolte le scuole superiori. Ma anche ascoltati i medici: sono loro a sapere cosa serve». «Bene: allora togliamo le nozioni», risponde all’invito Alberto Scanni, primario emerito di oncologia al Fatebenefratelli di Milano: «Per dare al Paese buoni dottori andrebbe valutata una sola cosa: la motivazione, la spinta etica». Ovvero vanno valutati i ragazzi uno a uno. Come? «Il test non è democratico», aggiunge l’ematologo Giorgio Lambertenghi Deliliers: «La selezione andrebbe fatta durante gli studi. Con esami molto più seri e impegnativi di quelli attuali. Non sbarrando l’ingresso a priori».
MODELLO POLITECNICO
Eccolo allora l’aspetto più odioso e meno democratico dei test: fotografano competenze precedenti. Come spiega Luigi Perissinotto, direttore del dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Cà Foscari a Venezia: «Come faccio a capire se un ragazzo non sa qualcosa perché non studia oppure perché non ha avuto buoni insegnanti? Bloccandogli l’accesso con un quiz gli precludo la chance di averli in futuro, dei buoni insegnanti». La soluzione, suggerisce il filosofo: dare a tutti la stessa possibilità di prepararsi. Per far combattere gli aspiranti ad armi pari.
Il modello esiste, e in Italia. È quello del Politecnico di Milano. Dove il questionario per entrare a Ingegneria esiste da 10 anni ed è stato raramente contestato o portato in tribunale. Come mai? «Primo: non c’è una sola sessione. Un unico giorno in cui si decide la vita di un ragazzo che magari proprio quella mattina non sta bene», spiega il rettore Giovanni Azzoni: «Abbiamo voluto sdrammatizzare la prova, dando la possibilità di tentare una volta al mese, da marzo a luglio dell’ultimo anno di superiori». Poi: manuali e simulazioni gratuite per i liceali (mentre un kit completo per Medicina costa 105 euro) e corsi aperti a chi è in quarta superiore: «Così i ragazzi imparano a conoscere la prova. Sanno cosa preparare», conclude Azzoni.
ALMENO L’ITALIANO
Se già in quarta liceo un ragazzo passa il pomeriggio a ripassare statistica per diventare ingegnere, però, significa che ha le idee molto chiare sul suo futuro. Una convinzione che manca spesso tra chi frequenta invece corsi come lettere o giurisprudenza, dove l’elenco degli iscritti si allunga di parcheggiati, indecisi e fuori corso. Per questo molti atenei hanno introdotto delle prove d’ingresso. Verifiche che non precludono l’accesso (anche chi non supera il test può immatricolarsi) ma servono, in teoria, a orientare gli indecisi, mostrando le lacune che dovrebbero colmare consigliando in questo modo altre strade.
Non sempre funziona però: a Bologna nel 2012 il 31 per cento degli iscritti al test per Scienze della comunicazione dimostrava gravi lacune in analisi logica, lessico e ortografia. Italiana. Ma solo il 2,3 per cento ha cambiato idea dopo aver visto il voto. Per il corso di Moda è andata meglio: il 46 per cento di coloro che hanno provato l’esame è risultato “non idoneo”. E la metà ha deciso di cambiare progetti. «Il test obbligatorio a settembre ci ha permesso di diminuire il numero di quei ragazzi che si iscrivono perché non sanno che pesci prendere e arrivano a febbraio senza aver seguito una lezione», spiega il direttore del dipartimento di Lettere e Beni culturali Costantino Marmo: «E poi ci ha mostrato le difficoltà delle matricole, sulle quali innovare la didattica, introducendo nuovi corsi e programmi di ripasso». Quasi che i quiz d’ingresso servano più agli atenei per orientarsi verso gli studenti che non ai neo-maturati per orientarsi verso il futuro. Quasi che sia l’università a dover supplire ai guai della scuola secondaria.
Ma su una tragedia italiana sono tutti d’accordo, esperti, studenti e ministri: se c’è una cosa che manca oggi a chi arriva all’università è una bussola. Che mostri a ciascuno quali sono i suoi talenti, quali le discipline più affrontabili, quali le professioni più adatte. Senza questa bussola, che in gergo si chiama “orientamento” e andrebbe fatta ben prima del test d’ingresso, i giovani faticano a capire cosa si nasconde dietro a un allettante Scienza delle Comunicazioni così come sarà difficile superare cinque anni di anatomia e clinica senza una solida e genuina curiosità per le scienze della vita.