L’Espresso 16/5/2014, 16 maggio 2014
SCONTRO FINALE
Vista da Roma, è la campagna elettorale che non c’è. Zero manifesti. Zero comizi. Iniziative ridotte al minimo, perché sono finiti i soldi, le idee e anche i leader. «Incredibile», non si capacita un veterano come il pd Beppe Fioroni. «Mai vista una campagna in cui non si muove nessuno. Io giro, Rosy Bindi, Enrico Letta, Dario Franceschini no». Vista da Roma è la corsa a due, Matteo Renzi contro Beppe Grillo. Il premier indiavolato, tra studi televisivi, tagli di nastri, incontri nelle scuole, cerca nel voto la legittimazione popolare del suo governo, finora mancata. Il comico, suo competitore, si sta rivelando il più abile politico in campo, con la scelta di andare nello studio televisivo di Bruno Vespa a una settimana dal voto, il più importante evento della campagna elettorale. Terzo incomodo, ruolo per lui del tutto inedito, Silvio Berlusconi, costretto alla resistenza, tra i servizi sociali a Cesano Boscone e la tesi del complotto internazionale per far cadere il suo governo nel 2011 avallata dall’insospettabile ex ministro del Tesoro americano Timothy Geithner. Le inchieste giudiziarie, quella della Procura di Milano sulle tangenti Expo e quella sull’ex ministro Claudio Scajola e le sue amicizie pericolose, più che provocare nuova indignazione e alimentare il voto di protesta, suonano da conferma, uno sconfortante deja-vu. Ma avranno il loro peso, il giorno del voto.
Si consuma così la vigilia del più grande «sondaggio elettorale certificato», come lo chiama Arturo Parisi, le elezioni europee in cui non si scelgono i governi, quelli nazionali e meno che mai quelli europei, ma si stabiliscono i pesi in campo per le future competizioni. “L’Espresso” ha fatto un viaggio nei colleghi elettorali. Perché sul territorio le cose cambiano. Oltre che per l’Europarlamento si vota per due regioni (Piemonte e Abruzzo, ora in mano al centrodestra), 4.098 comuni, 29 capoluoghi di provincia. È lì, nelle città, che la sfida si fa ravvicinata, che la caccia al voto sfiora il corpo a corpo tra i candidati. Ed è lì, nelle periferie dello Stato, al Sud e nelle isole, che si fa drammatica la corsa a due Renzi-Grillo oppure il derby fratricida tra il partito di Berlusconi e il partitino di Angelino Alfano. Nell’immensa circoscrizione meridionale che va dall’Abruzzo allo Stretto il Pd è in allarme, i sensori avvertono una crescita del M5s più ampia di quanto segnalato dai sondaggi. Per recuperare consenso, si è mosso Renzi in persona, in tour da Secondigliano a Palermo. Al Sud prova a reggere Forza Italia che si affida all’ex ministro Raffaele Fitto, tocca a lui spingere in alto il risultato nazionale, se va male è finita: il partito dell’imprenditore di Arcore è ormai a trazione meridionale, come era la Dc al momento del trapasso. Nelle regioni rosse, tradizionale cassaforte di voti per la Ditta, c’è il doppio volto del Pd, interamente renzizzato in Toscana, ancora in mano agli uomini dell’antico apparato post-comunista in Emilia. Al Nord c’è l’usato sicuro Sergio Chiamparino in Piemonte. Tanti nomi del passato: se ti sposti da Roma al territorio, il nuovo non è ancora arrivato.
Tommaso Cerno E Marco Damilano
ALLARME A SUD PIÙ ROSA PIÙ DIVISI –
Onore’, vaffa! Qui la gente ti dice così, prima che cominci a parlare. Al Sud non vogliono più votare. L’unica diga a Grillo, piaccia o no, sono le vecchie preferenze, casa per casa, volantino per volantino... Altro che Facebook e Twitter! Quelli funzionano a Milano...». Parola di Francesco Amoruso, senatore e notabile pugliese, forzista di matrice democristiana. È la guerra dello streaming contro i santini. Dei comizi-spettacolo che riempiono le piazze contro il silenzioso porta a porta. È la guerra dei meet-up contro le squadre di calcio, le associazioni, i circoli, il dopolavoro, le feste di paese, le processioni di santi passate al setaccio. Eccolo qui, riesumato direttamente dalla Prima repubblica, l’ultimo argine dei partiti tradizionali per frenare la valanga a cinque stelle che sta per sommergere il Meridione d’Italia. Quando Berlusconi non tira più, quando le manette fanno perdere la bussola, quando la sinistra non può più contare su sindacato e struttura, i vecchi diccì rispolverano la campagna elettorale di una volta. Fatta di suole consumate e migliaia di chilometri percorsi in macchina: «Ascolta a me... Mastella è stato eletto così a Strasburgo, mica con Internét. Aveva i voti a Benevento e poi l’Udeur, piccolo piccolo, che tutti gli ridevano in faccia. Ma intanto quelli avevano cento voti per ogni comune e lui s’è preso 100 mila voti», spiega ancora Amoruso, «Siamo in una guerra: stavolta se si perde, andiamo a casa per davvero».
Proprio così. Basta fare un giro al Sud per capire che qui le Europee sono diventate una partita all’ultimo voto. Forza Italia contro Pd. Pd contro Grillo. E Grillo contro tutti. E se il M5s guida i sondaggi, Raffaele Fitto è pronto a giocarsi il tutto per tutto. L’ex governatore ed ex pupillo dell’ex Cav è da un po’ che vuole togliersi di torno quel maledetto prefisso “ex”, appunto, che lo tormenta. E scalare Forza Italia fino ai piani più alti. Per farlo deve vincere le elezioni europee, staccando il Pd di Renzi e frenando l’avanzata di Beppe Grillo. Per presentarsi a palazzo Grazioli come il più votato d’Italia, e piazzare le sue armate sul Risiko del premier trentanovenne.
Chi lo ha capito bene è il sindaco di Bari, Michele Emiliano, furibondo per le liste del Pd. Lui che da mesi inseguiva la leadership democratica al Sud. Lui che era simpatizzante renziano da tempi non sospetti, sebbene con echi grillini. Insomma, quando tutto sembrava pronto per incoronarlo alle Europee, un sms rovina il gioco. Sono le 00.49 del 9 aprile: «Caro Michele, problemi sulle Eu. La linea del segretario è di rottura. E prevede 5 capilista donne. Ma per te certo non è un problema». A scrivere è Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd, che a Roma ha appena presieduto la riunione sulle liste. E che sa benissimo che, al contrario, il problema Bari c’è. E pure grosso. Detto fatto, scoppia il caso. Emiliano lascia il posto a Pina Picierno e sbatte la porta alla candidatura. Così a centrodestra brindano: «Berlusconi non ci voleva credere. I sondaggi davano Emiliano forte, adesso per noi è più facile superare il Pd». Stessa sensazione che si respirava ai piani alti della Regione, dove il governatore Nichi Vendola fa campagna elettorale a metà, frenato dal caso Ilva.
Ma Renzi non ci sente. E va avanti per la sua strada. Rottamazione. Cambiamento. Quote rosa. Intanto al Sud gli attacchi contro Emiliano sono quasi quotidiani. Accusato di non seguire il diktat di Matteo, di non criticare abbastanza Grillo, di essere un eretico del renzismo. Ma lui si volta dall’altra parte: «Sbagliano!». A girare un po’ per il Salento, in effetti, in parecchi non condividono il mantra rabbia-speranza: «Nel Sud senza lavoro hanno mai pensato che fra le due è probabile che vinca la rabbia?». Fatto sta che il sindaco di Bari non ha più parlato con palazzo Chigi. Ufficialmente il presidente del Consiglio è troppo impegnato. Ma in realtà a Bari la delusione c’è. Al punto che da Roma è arrivato l’ordine ai ministri di concentrare gli sforzi elettorali quaggiù, dove il Pd rischia di arrivare terzo: «Abbiamo aperto un’autostrada a Forza Italia. Qui si ragiona da ascari. La domanda che si fanno è: quanto conterò a Roma? Mica: che fine fa il Pd?», si è sfogato Emiliano. Anche se poi in piazza dice il contrario.
Morale, quella a cui fischiano di più le orecchie è Pina Picierno, casertana di nascita, intenzionata a dare filo da torcere ai gufi baresi espugnando la Campania. Missione difficilissima, ripetono al Nazareno, dove i contatti con i signori delle tessere sono costanti. Pina spera pure nell’ex governatore Antonio Bassolino, tornato in campo dopo essere stato assolto dalla lunga vicenda giudiziaria sui rifiuti. A Napoli tutti sanno che o’ sindaco fa il tifo per due candidati maschi (lo storico delfino, Andrea Cozzolino, e Massimo Paolucci, l’ex braccio destro che dei rifiuti era stato addirittura il commissario vicario). Ma c’è una coincidenza che potrebbe aiutare anche la Picierno. Da anni, ormai, Bassolino e Paolucci erano in pessimi rapporti, ma l’eventuale elezione a Strasburgo aprirebbe le porte di Montecitorio ad Annamaria Carloni, moglie dell’ex governatore. Ed ecco che i “bassoliniani” sponsorizzano entrambi gli ex delfini. «Tanto, si possono dare due voti», dicono. «Tre», correggono i fan della capolista, «se c’è una donna».
A centrodestra corrono ai ripari. E Fitto ricuce almeno all’apparenza gli strappi. Pace (mediatica) con Giovanni Toti e accordo (di ferro) con il gruppo di Nicola Cosentino. Strano ma vero, da quando Nick ‘o Mericano è finito in carcere, nel napoletano è scoppiata la pace elettorale. E se tutti prima rifiutavano un posto in lista a Cosentino, oggi nessuno disdegna i suoi voti. Assieme a Fitto, pure Fulvio Martusciello, fratello del più volte viceministro Antonio, commissario all’AgCom. È lui l’altro uomo forte. Prima una visita a casa Cosentino, filmata dai carabinieri che stavano indagando sul politico casalese. Poi, l’intervento per sbloccare una pratica regionale che angosciava i fratelli dell’ex sottosegretario, finiti in carcere con lui. Infine, una passeggiata a Caserta con il senatore Vincenzo D’Anna, cosentiniano di ferro. Se vuole fare risultato, Martusciello, l’unico con il quale si è lasciata fotografare Francesca Pascale nell’ultima discesa a Napoli, deve riuscire in un’impresa disperata, riavvicinare Cosentino a Luigi Cesaro. L’ex amico di Cosentino, infatti, è una mina vagante. E non disdegna di spostare pacchetti di voti su candidati “alternativi”. Magari renziani del Pd.
Ma Grillo sembra non venire scalfito. E nella Napoli del pupillo Luigi Di Maio si concede un bagno di folla che pochi avrebbero rischiato. Un segnale, secondo i pentastellati, che lascia ben sperare. Un comizio nel cuore del rione Sanità, il popolare quartiere di Totò, off limits per la politica, se si pensa che l’ultimo a presentarsi lì era stato Giorgio Amendola. Altri tempi. Il comizio? «Beh, i primi dieci minuti li ha dedicati a Genny ‘a carogna», raccontano a Sanità. «In tv l’aveva sbeffeggiato, ma qui a Napoli no... Grillo è furbo... e sa che qui i tifosi votano».
PROFONDO ROSSO –
La penultima domenica di campagna elettorale, infine, la rossa Emilia si è dipinta di renzismo. A Castenaso, comune di 14 mila abitanti alle porte di Bologna, la comunità si è raccolta per festeggiare la prima comunione del figlio di Benedetta Renzi, sorella del premier: c’era tutta la famiglia, 1la moglie di Matteo, Agnese, e i suoi genitori. Il più famoso dei Renzi era l’unico assente. Alla stessa ora, domenica mattina, si muoveva nel centro di Modena, in maglietta rossa e ballerine nere, la ministra Maria Elena Boschi, arrivata per sostenere il candidato sindaco del Pd Paolo Muzzarelli. Un caffè, una passeggiata sotto i portici in piazza Grande, l’intervento in cui la numero due del governo ha spronato a battere «il partito dell’astensione». Con una buona dose di autopersuasione: ad ascoltarla, nella roccaforte rossa, c’erano cinquanta persone, per la precisione quarantacinque, comunque meno dei presenti alla prima comunione della famiglia Renzi.
Posti vuoti che consegnano la vigilia del voto nella regione granaio di voti per la sinistra a uno strano sentimento di inquietudine. In apparenza non cambia nulla, il partito è quello di sempre nonostante il terremoto renziano, in mano al Tortello magico del presidente della regione Vasco Errani, in carica dal 1999, un’eternità, la Ditta dell’ultimo segretario arrivato dall’Emilia, Pier Luigi Bersani. Ma è da qualche anno che sulla via Emilia, come in un laboratorio, si sperimentano i futuri passaggi della politica nazionale: qui è nato l’Ulivo di Romano Prodi, qui, nel 2010, è esploso il Movimento 5 Stelle, dopo il primo Vaffa-day di Beppe Grillo in piazza Maggiore nel 2007, con percentuali a due cifre in regione, qui nel 2012, a Parma, lo sconosciuto Federico Pizzarotti ha sconfitto l’usato sicuro del Pd. E qui il Movimento è entrato per la prima volta in crisi, con il primo dissidente espulso, Giovanni Favia, fino all’ultimo consigliere regionale Andrea De Franceschi, sospeso da M5S qualche giorno fa in attesa di chiarire l’uso dei fondi pubblici.
Solo il Partitone sembra restare immutabile. Si vota per le europee, il candidato locale è l’europarlamentare uscente Salvatore Caronna, che fu segretario regionale lustri fa, si rinnovano i sindaci del quadrilatero emiliano-romagnolo Modena, Reggio Emilia, Forlì, Ferrara e i sondaggi danno i candidati probabili vincenti già al primo turno, più Sassuolo che alle ultime elezioni fu espugnato dalla destra. Eppure non sarà una passeggiata. E sulle elezioni del 25 maggio si giocano i futuri assetti di potere, in vista dell’appuntamento con le regionali del 2015, la fine della lunga stagione di Errani. Vecchie manovre e nuove alleanze, il rosso antico che sembra inossidabile al passare del tempo e gli homines novi della rottamazione renziana che spingono per emergere e che disperano sempre più di farcela.
«Renzi in Emilia non è mai arrivato, il cambiare verso non c’è stato, a Modena non si è modificata una virgola di quanto sarebbe successo se ci fosse stato ancora il Pd di Bersani», attacca il deputato del Pd Matteo Richetti, già presidente del consiglio regionale emiliano, renziano della primissima ora, in polemica con gli ultimi arrivati, i convertiti sulla via Emilia come Stefano Bonaccini, anche lui modenese, segretario regionale del Pd e responsabile nazionale degli enti locali, super-bersaniano nel 2012, quando la regione consegnò a Bersani il 60 per cento dei voti, supporter di Matteo nel 2013 cui ha garantito il 71 per cento dei voti alle primarie. «Ha visto i manifesti elettorali?», ironizza Richetti. «Il lunedì ci sono Bersani, Caronna, Muzzarelli. Il martedì D’Alema, Caronna, Muzzarelli... Esprimo la mia solidarietà ad Achille Occhetto, ingiustamente discriminato». A Modena le primarie per la scelta del candidato sindaco sono finite tra accuse di irregolarità e divisioni. A Castenaso, il comune di residenza di Benedetta Renzi, futura assessore, i veleni tra compagni hanno appestato la campagna elettorale. Il sindaco uscente, il renzianissimo Stefano Sermenghi (nel 2012 fu l’unico sindaco del bolognese a schierarsi con il collega di Firenze contro Bersani), dopo aver vinto le primarie con il 75 per cento, aveva concesso due posti in lista agli esponenti della minoranza interna cuperliana che però conta sul segretario locale del Pd Giuliano Sacchi e su quello della federazione bolognese, come si sarebbe chiamata un tempo, Raffaele Donini. Il partito ordina il ritiro dei due candidati dalla lista del sindaco e prova a sconfessare il primo cittadino che ha vinto le primarie, poi è costretto a una pietosa marcia indietro. Ma è solo il sintomo di un disagio profondo destinato a esplodere.
In gioco c’è il dopo-Errani e qualche interesse più corposo. Il sindaco Sermenghi è attaccato dall’apparato non solo per il suo renzismo, ma anche perché più di una volta ha detto di no, per esempio sulla raccolta dei rifiuti porta a porta, alla potentissima Hera, la multiutility regionale che gestisce tra l’altro l’inceneritore alle porte di Castenaso. Chi tocca Hera nel Pd emiliano muore. Anche perché Pd e Hera sono la stessa cosa: «Silvio Berlusconi ha fondato il partito-azienda, da noi c’è l’azienda-partito, la Ditta non è un modo di dire. Hera fa e disfa le carriere politiche, ha un potere enorme», denunciano i (pochi) dissidenti. Un modello emiliano-cinese, in cui i mandarini di partito eletti sindaco controllano come rappresentanti degli enti locali l’agenzia che fornisce energia, acqua e gas a oltre due milioni di utenti.
Un’esagerazione? Mica tanto. A febbraio il comune di Forlì annuncia che non rinnoverà il patto di sindacato di Hera insieme al comune di Ferrara. «Forlì e Ferrara non vogliono rinnovare il patto? Bene, l’accordo scade il 31 dicembre, vedremo cosa decideranno le amministrazioni per quella data», replica il presidente del comitato di sindacato Daniele Manca, sindaco di Imola. Sarà un caso, ma il sindaco di Forlì Roberto Balzani, uno storico estraneo alle logiche di corrente e determinato a imporre un’idea autonoma di città, non si è ricandidato. Mentre Manca è in pole position per la successione a Errani: perfetto punto di congiunzione tra il partito e l’azienda. In un partito trasformista dove tutti sono bersaniani o renziani a seconda delle opportunità del momento. A meno che non scenda in campo con un suo progetto alternativo il sottosegretario Graziano Delrio, emiliano doc. O che il Movimento 5 Stelle non faccia il botto ancora una volta, come due anni fa a Parma. Se prevale l’onda nazionale che spimnge per Grillo nelle roccaforti il Pd rischia i ballottaggi. Pericolo rosso per Renzi: il leader chiamato a riconquistare le percentuali raggiunte dal vecchio Pci per voltare finalmente pagina.