Roberto Giovannini, La Stampa 16/5/2014, 16 maggio 2014
IL MONDO VA SEMPRE PIU’ A CARBONE
Sembrava essere tramontato l’astro del King Coal, il minerale che ha alimentato le rivoluzioni industriali dell’Ottocento. Il ventesimo secolo è stato il secolo del petrolio, che ancora oggi è decisivo. Ma il carbone è tornato sul proscenio. Paradossalmente, proprio negli anni (dal 1975 al 1990) in cui i giacimenti storici europei – la Ruhr, la Lorena, quelli britannici – venivano trasformati in parchi di archeologia industriale, l’Occidente si è accorto che il carbone era il combustibile di gran lunga conveniente per generare energia elettrica. La stessa scoperta è stata fatta nei Paesi «emergenti»: Cina, Sudafrica, India hanno alimentato la loro crescente fame di energia proprio con il carbone. Del resto, costruire una centrale a carbone è relativamente rapido e poco costoso.
Il risultato: secondo la Iea (l’agenzia internazionale dell’energia) nel 2013 il king coal costituiva il 28,8% del consumo energetico globale, e addirittura il 42% della produzione di elettricità. Oltre che scaricare nell’atmosfera il 44% delle emissioni totali di gas serra, quelle che generano il riscaldamento globale. Secondo gli scienziati di carbone ce n’è a sufficienza e a bassi costi per altri 200 anni; ma se continueremo a bruciarlo certamente il clima cambierà, e in modo disastroso.
C’è una ragione per cui in Europa si importa carbone e non si scava quello che c’è sottoterra: il costo. Per una tonnellata di carbone del Galles ci vogliono 80 euro; una tonnellata di carbone sudafricano o australiano - compreso il trasporto - ne costa solo 20. In piccola parte questo dipende dal fatto che i giacimenti storici sono stati già molto sfruttati: in certi pozzi tedeschi oggi si lavora a due chilometri di profondità, con sfide tecniche e produttive proibitive. Ma l’atout dei nuovi produttori (Cina, Australia, Indonesia, India, Sudafrica, Colombia, accanto a Usa ed ex Unione Sovietica) è che non spendono in sicurezza, dentro e fuori dalle miniere. Sia che si tratti di miniere a cielo aperto (il 40% della produzione mondiale, quando il carbone è vicino alla superficie) sia che invece si lavori in profondità, avanzando pazientemente nel sottosuolo in condizioni comunque pesantissime.
Francesco Carta ha fatto il minatore dal 1984 fino a due mesi alla Carbosulcis, l’unica miniera italiana attualmente in funzione: oggi 130 persone estraggono dal sottosuolo della Sardegna 300.000 tonnellate l’anno di carbone. «La tecnologia che usiamo noi - spiega - prevede che la galleria avanzi con una grande “grattugia” di 3,5 metri di diametro che mangia la roccia, mentre dietro le gallerie vengono consolidate inserendo nel “tetto” delle speciali aste di acciaio, tappando con speciali resine ogni fessura, monitorando in tempo reale possibili fuoriuscite di gas». Cose che costano, come costa tenere sempre pronte le squadre di sicurezza, fornire tenute da lavoro adeguate, e persino accumulare in modo che non creino sacche di gas gli scarti dello scavo. La sicurezza ovviamente non è una priorità in altri Paesi, dove peraltro la manodopera costa in modo irrisorio. Fece scalpore tra i minatori sardi il racconto di un ingegnere della Carbosulcis che era andato in una miniera namibiana a vendere un nastro trasportatore. «Una frana - ricorda Carta - aveva chiuso sottoterra da qualche parte 15 minatori neri, e intanto si continuava a estrarre minerale. Il nostro conterrà forse molto zolfo - conclude - ma in Italia importiamo milioni di tonnellate di carbone macchiato di sangue».