Marco Ansaldo, la Repubblica 16/5/2014, 16 maggio 2014
«LA MIA VITA IN MINIERA»
«Benim kardeslerin nerede?». I miei fratelli dove sono, si chiede Hasan, che non si toglie nemmeno per un attimo il casco giallo di ordinanza, quello dei minatori, anche adesso che ormai è fuori. Salvo. «I miei fratelli, i miei colleghi», mormora. Hasan si guarda intorno come sperso. Ha una giacchetta scura senza maniche sopra un maglione celeste pesante. Sugli stivali che hanno perduto il colore originale indossa un paio di pantaloni rossi come quelli dei soccorritori. Da un tascone pende una bottiglietta d’acqua che lui tocca di continuo, come per assicurarsi di averne a sufficienza, anche ora. Dalla voragine di Soma non esce più nessuno. Vivo. Da 24 ore il conto dei morti è fermo a 282. Ma sono almeno ancora in cento, là dentro. Ed è facile che, alla fine, le vittime totali superino il numero di 350, quantomeno. Una tragedia colossale.
Hasan si volta di nuovo verso il tunnel, e lo devono portare via. Ha 24 anni, è di un paese qui vicino. Accasciato su una panca racconta la sua vita passata dentro in miniera e gli ultimi istanti dei suoi colleghi. «L’altro pomeriggio, saranno state le due e mezza di pomeriggio, lo so perché ho chiesto subito l’ora e tenere il tempo per noi è una cosa essenziale là sotto, abbiamo sentito tremare tutte le pareti. Abbiamo capito subito che era qualcosa di molto serio. Ci siamo organizzati, tentando di mantenere la calma, anche se non è facile, e iniziato a cercare una via d’uscita. Però, ci siamo resi conto che eravamo bloccati, e così abbiamo cominciato ad aspettare che qualcuno ci venisse a prendere. Avevamo acqua e cibo per sopravvivere. Ma il problema non era questo, era che l’aria cominciava a mancare.
La nostra fortuna è stata di essere a soli 50 metri sotto terra, non centinaia come invece è capitato ai nostri amici. E ci hanno tirato fuori».
Hasan si guarda le mani. E guardare le mani di Hasan fa capire molto. Sono nere, con una geografia di ferite, le unghie spezzate, i dorsi e le nocche senza più pelle. «So che cosa vuol dire morire un chilometro sotto terra, come successo ai miei compagni. Rimasti bloccati senza più via d’uscita si sono rifugiati nella “camera di sicurezza”, quella che contiene le bombole di ossigeno. A turno si sono passati qualche sorso d’aria, con la speranza che i soccorsi riuscissero a individuarli. E sono morti così, soffocati, accasciandosi gli uni sugli altri, come mi hanno detto che li hanno trovati. Troppo tardi, però».
La storia raccontata da Hasan conferma la carenza di sicurezza delle miniere turche. A Soma, dove lavorano 6.500 persone, c’è un’unica “sala sicura”. I modelli obbligatori nelle miniere dei Paesi occidentali, con kit di sopravvivenza e telefono, dovrebbero poter ospitare fino a 40 persone, garantendo cibo, acqua e ossigeno per un mese. Quella di Soma, invece, ha prolungato la vita di trecento uomini solo per poche ore.
Il giovane minatore si toglie dal taschino una foto. Un’immagine da brivido, scattata dentro le gallerie. Da brivido perché rivela la vita di tutti i giorni a un chilometro sotto la superficie terrestre. Si vedono appesi al soffitto, come fossero prosciutti da stagionare, decine di cestelli bianchi. Ognuno porta il vestiario di ciascun mi-
natore. Da quegli involucri di plastica fuoriescono giacche, pantaloni, maglioni da montagna. È il loro ricambio. Quella che Hasan, con un’involontaria e tenera ironia, definisce come la “dressing room”, la stanza dei vestiti. «La sola cosa che un minatore non porta — spiega compunto — è la camicia bianca: si sporcherebbe subito». E aggiunge: «In un’altra camera ci sono le maschere da mettere sul viso in caso di emergenza. E un’altra stanza contiene una serie ordinata di lampadine». Quelle da mettere sul casco giallo, divenuto ormai un simbolo in Turchia per chi simpatizza con i minatori a lutto.
«La mia vita? – dice Hasan guardando dritto in faccia – lavoro, solo lavoro. Tutto per pochi spiccioli. E una fatica da bestie. Nelle miniere di carbone, e non di rame dove le metrature sono più ampie, si lavora in spazi molto stretti, praticamente quasi seduti. E con il buio perenne teniamo sempre a mente l’ora: è importante da conoscere per rompere la routine, quando è il momento di mangiare o di dormire. E sapere che sono le 10 di mattina, oppure mezzanotte è decisivo, in miniera».
Quattro anni fa, nel sito andino di San Josè, in Cile, 33 minatori furono salvati dopo 70 giorni passati sotto terra. Ci ha mai pensato, Hasan? «Non in questi giorni, non c’è stato il tempo. Sicuro, un incubo terribile. In queste situazioni credo che la regola principale sia di non perdersi mai d’animo. E da noi c’è chi ha pregato».
Fuori dalla Soma Komur Isletmeleri A. S., l’azienda della miniera maledetta, una teoria di donne sta scendendo verso il cimitero. Sono le vedove e le figlie dei compagni di Hasan, che il rumore delle ruspe accompagna verso le fosse scavate una in fila all’altra. Un’anziana madre bacia il nome del figlio sulla tomba e piange. Hasan si è voltato, ha tolto il casco giallo, e abbracciando seduto un termosifone finalmente si è addormentato.