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 2014  maggio 16 Venerdì calendario

L’ALLARME A VUOTO DEI COSTRUTTORI «APPALTO CON TROPPE ANOMALIE»


ROMA — L’appalto era tutto sommato modesto, considerando le cifre enormi in ballo per l’Expo. Una gara da 25 milioni per la realizzazione del padiglione italiano. Ma congegnata in modo tale da indurre Paolo Buzzetti a scrivere al commissario Giuseppe Sala e ad Antonio Acerbo, il «responsabile unico» di quello spezzone della più grande opera pubblica di inizio millennio. Con la lettera che porta la data dell’11 novembre scorso il presidente dell’associazione dei costruttori denunciava «alcune criticità» che avevano provocato una sollevazione fra molti suoi aderenti perché avrebbero rischiato «di rendere estremamente difficoltosa la partecipazione delle piccole e medie imprese». Il riferimento era a un requisito previsto dal bando: quello secondo cui per poter partecipare alla gara era necessario dimostrare di aver fatturato nei cinque anni precedenti almeno il quintuplo dell’importo a base d’asta, e soltanto per quella categoria di lavori. Totale, 125 milioni. «Tale prescrizione», lamentava Buzzetti, «suscita notevole perplessità in quanto non risulta in linea con la normativa vigente e appare in contrasto con i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Allegava un promemoria nel quale si argomentava che per legge il tetto per partecipare a quelle gare era pari a 2,5 volte l’importo a base d’asta: la metà esatta di quanto richiesto.
Un mese dopo l’appalto per Palazzo Italia veniva aggiudicato alla Italiana Costruzioni della famiglia romana Navarra e al Consorzio Veneto Cooperativo aderente alla Lega Coop, che offrendo un ribasso del 27 per cento avevano battuto dodici concorrenti.
La richiesta dell’Ance di rettificare il bando era caduta nel vuoto. La giustificazione portata da Expo 2015 per fissare requisiti ben più stringenti di quelli stabiliti dalla legge aveva a che fare con l’esigenza di ottenere la maggiore affidabilità possibile, considerando anche in questo caso «i ristretti tempi di esecuzione».
Ah, la fretta. L’esperienza insegna che quando in Italia si è costretti a correre per fare un’opera pubblica qualche forzatura è fatalmente inevitabile. Anche se c’è forzatura e forzatura. Perché un conto è stabilire requisiti molto più vincolanti rispetto a quelli delle norme vigenti per una gara ordinaria, com’è stato per Palazzo Italia. Altro conto è demolire le regole normali alla radice, com’è accaduto per pressoché tutti gli altri appalti dell’Expo. Le varie norme approvate di volta in volta nel disperato tentativo di accelerare le procedure hanno consentito di derogare ben 78 (settantotto) articoli del codice dei contratti pubblici. Si va dalle fasi di aggiudicazione degli appalti, ai termini per le offerte, alla progettazione, alla disciplina dei lavori complementari, alle varianti in corso d’opera, alle penali, all’adeguamento dei prezzi, alla direzione dei lavori, alle procedure di affidamento, ai subappalti... Di più. Le deroghe non valgono soltanto per le opere dell’Expo nude a crude, ma anche per quelle definite strettamente funzionali all’evento. Ovvero, le linee M4 e M5 della metropolitana, l’interconnessione fra la statale 11 e l’Autostrada Torino-Milano, il collegamento fra la stessa statale e l’autostrada dei Laghi, l’adeguamento della medesima autostrada tra gli svincoli Expo e Fiera, i cosiddetti parcheggi remoti. Con quali risultati?
«Nella migliore delle ipotesi», dice Buzzetti, «le procedure d’urgenza comportano una violazione della concorrenza; nelle peggiori, creano le condizioni ottimali per violare la legge. Non c’è motivo di aggirare le procedure ordinarie in emergenza, figuriamoci poi in casi come quello dei grandi eventi pianificati da tempo».
Sette anni, c’erano a disposizione per l’Expo. In quattro i cinesi hanno costruito lo Hangzhou Bay Bridge, un ponte oceanico lungo trentasei chilometri. Senza andare tanto lontano, si potrebbe perfino ricordare che per realizzare i 794 chilometri dell’autostrada del Sole fra Napoli e Milano si impiegarono otto anni: a un ritmo di 8,3 chilometri al mese. Ma erano altri tempi.
Dei sette anni che avevamo a disposizione per l’Expo, invece, i nostri amministratori ne hanno passati tre a litigare per le poltrone e i posti di potere e due a decidere come spendere 160 milioni di euro per acquistare da influenti privati terreni che ne valevano una ventina, e che dopo il 2015 dovrebbero essere rivenduti, secondo i piani, a 350: auguri. Basterebbe ricordare il valzer iniziale delle nomine, con i veti all’interno dello stesso centrodestra a Paolo Glisenti, candidato dell’ex sindaco milanese Letizia Moratti. Poi i due anni dell’ex ministro Lucio Stanca, nominato a capo dell’Expo senza che rinunciasse al seggio parlamentare, trascorsi senza costrutto. Quindi la logorante guerra di posizione sulle aree fra il Comune e la Regione governata da Roberto Formigoni: che nominato senatore dopo 17 anni ininterrotti al potere in Lombardia non voleva neppure lasciare l’incarico di commissario generale dell’Esposizione. Per finire con il rischio di una figuraccia planetaria. E un sospetto: è soltanto un caso che tutte le opere pubbliche fatte con la fretta e le procedure d’urgenza in deroga alle norme ordinarie, tipo i Grandi eventi gestiti dalla vecchia Protezione civile, finiscano nelle indagini per corruzione?