Francesco Forte, Il Giornale 16/5/2014, 16 maggio 2014
LA PROVA DEL COMPLOTTO
La notizia che l’ex ministro del Tesoro americano Timothy Geithner ebbe forti pressioni di autorevoli personaggi ufficiali europei perché il governo Usa si aggiungesse al gruppo di quelli che volevano che Berlusconi nel novembre 2011 si dimettesse, non mi ha stupito. Conferma un fatto che allora, quando tali dimissioni avvennero, dopo un colloquio col capo dello Stato, mi lasciò molta amarezza. Infatti Silvio Berlusconi aveva con sé un mio documento programmatico che, a quanto pareva, non era stato neppure preso in considerazione. Questioni politiche pregiudiziali comportavano questa procedura sbrigativa.
Il documento che avevo preparato, su richiesta, per il presidente Berlusconi, riguardava le azioni da intraprendere per combattere la crisi finanziaria che si stava abbattendo, allora, sul nostro debito pubblico, oggetto chiaramente di operazioni di vendite speculative.
Il documento delineava una azione di contrasto, da attuarsi mobilitando 400 miliardi per operazioni difensive sul debito a medio e lungo termine del Tesoro italiano: 400 miliardi erano pari al 37% del totale di tale debito allora in essere. Il mio testo, frutto di un precedente lavoro con vari esperti del Pdl, prevedeva la costituzione presso la presidenza del Consiglio dei ministri di un «Fondo per la garanzia e il riscatto del debito pubblico » alimentato con 200 miliardi di risorse finanziarie derivanti da varie operazioni, in particolare l’utilizzo di beni pubblici, di cui 120 miliardi, mobilitabili abbastanza rapidamente.
Una parte di questo importo, 160 miliardi, sarebbe servita per il riscatto di debito pubblico: poiché il prezzo di questo sul mercato era di un 20% almeno inferiore a quello nominale, con 160 miliardi se ne potevano comprare 200. Ma un’altra parte, 40 miliardi, consisteva in impiego di beni pubblici per la cartolarizzazione al 20- 25% di titoli del debito pubblico detenuti da banche, assicurazioni, fondi di investimento e altri operatori istituzionali, ma anche di privati a ciò interessati.
In altri termini, a un titolo del valore nominale di 100, veniva affiancato, come collaterale, un bene pubblico di 20 (che valeva il 25% rispetto al valore di mercato del titolo, pari a 80).
Il detentore di tale collaterale lo poteva far suo, in caso di insolvenza del creditore (lo Stato italiano), ma anche su semplice sua richiesta da esaudire in un ragionevole lasso di tempo. Con 40 miliardi di beni pubblici si potevano collateralizzare titoli pubblici per 5 volte tanto, cioè 200 miliardi che sommati ai 200 da riscattare davano 400 miliardi. È vero che ci vuole tempo per alienare gli immobili e altri cespiti e anche per valutarli. Ma la cartolarizzazione, per le ragioni che ho appena esposto, non comporta di poterne disporre nell’immediato. Sicché il mio progetto per questa parte poteva partire subito. L’altra si poteva attuare gradualmente, ma poteva entrare in azione anche subito in modo ampio facendo ricorso a qualche veicolo finanziario internazionale, interessato a fare da intermediario. Ci sono, negli Usa, fondi di investimento come BlackRock che ha in pancia 4.300 miliardi di dollari.
I 200 miliardi di risorse finanziarie che avevo calcolato per mettere in moto tutta l’operazione erano stimati con criteri molto prudenziali. Ad esempio, il condono con la Svizzera, per i capitali italiani esportati, di cui allora si parlava e che è tornato ora alla ribalta, io in quel documento lo valutavo in 8 miliardi, mentre la stima corrente era di 20. Può darsi che il mio piano fosse discutibile, ma almeno andava esaminato.
Però dalla lettura dei giornali, ho appreso che il presidente della Repubblica o i suoi esperti non lo presero per nulla in considerazione. Un giornale importante lo menzionò liquidando come inadeguata alla crisi l’idea di Berlusconi di costituire una commissione presieduta dal professor Forte, mentre ciò non c’era affatto nel testo.
Sembrava quasi che fosse una cosa buffa. Ma il dramma in cui questo episodio si svolgeva non lo era affatto.