Gigi Vesigna, Oggi 14/5/2014, 14 maggio 2014
SE 25MILA OSPITI VI SEMBRANO POCHI
Roma, maggio
«Paolo Villaggio confessa di essersi innamorato di Eva Robin’s, una bella ragazza che all’anagrafe è registrata come Maurizio Coatti e che ha tutti gli attributi maschili perfettamente in regola. Poi Paola Borboni racconta di essersi concessa al presidente dell’Argentina per salvare la compagnia teatrale di Armando Falconi...».
Così Maurizio Costanzo ricorda quella serata di lunedì 12 settembre 1982, quando, alle 23.15 andò in onda Maurizio Costanzo show, il suo «intrattenimento con ospiti», traduzione improvvisata di talk show, un genere che negli Stati Uniti faceva furore, ma che in Italia era nato alla chetichella qualche anno prima, condotto e inventato da quel giornalista rampante, nato a Roma il 28 agosto 1938, figlio unico che si riteneva grasso per una cura sbagliata di vitamine, e che è completamente daltonico: controllate, veste sempre di grigio e blu.
«Tutto vero», conferma Maurizio, «avevo cominciato le mie chiacchiere in Rai, nonostante il parere sfavorevole di Ettore Bernabei, convinto che gli italiani andassero a letto presto; aveva torto. La prima puntata di Bontà loro superò i 4 milioni e mezzo, la seconda raggiunse i 13 milioni. Ospiti il regista Anton Giulio Majano, un bidello e una ex Miss Italia che era stata espulsa dal concorso per essersi fatta fotografare con le tette di fuori, 40 minuti di domande e di risposte su vita, lavoro e carriera. Niente di speciale. Era semplicemente il racconto della vita di persone diverse».
Ma per arrivare al Maurizio Costanzo Show la strada era ancora lunga.
«Effettivamente. Nella seconda puntata di Bontà loro ebbi il primo politico, il ministro del Lavoro Tina Anselmi: le chiesi perché non si fosse mai sposata e mi beccai una quindicina di interpellanze parlamentari».
Poi, sempre sulla Rai, vennero Acquario e Grande Italia. Però vorrei parlare dei numeri del tuo monumento in vita.
«E allora diamoli questi numeri: in onda per 22 anni, 3.600 puntate, 25 mila ospiti».
Il tuo spettacolo di parole è stato un trampolino di lancio per artisti e intellettuali che tu hai scoperto. Ricordo la tua prima volta con Sgarbi, con Iacchetti e le sue canzoni bonsai, Gioele Dix e il suo automobilista arrabbiato, e ancora Giobbe Covatta, lo sfortunato Nick Novecento e Stefano Zecchi. Come li hai scovati?
«La scelta dei personaggi fu spesso casuale e nasceva anche dalle proposte dei redattori. Per esempio, uno di loro si occupava di trovare comici debuttanti, altri di scoprire un elegante professore di estetica all’Università di Milano come Zecchi».
Un must del tuo show era il finale, quando gli ospiti dovevano sfilare in passerella per ringraziare la platea. C’era chi si sentiva a proprio agio, chi soffriva di timidezza. L’ho provato diverse volte e - è inutile nasconderlo - in quel momento ti sentivi protagonista.
«Col passare delle settimane e il successo della trasmissione tutti avrebbero fatto la passerella anche all’apertura».
Una sera mi invitasti a casa dopo lo spettacolo e lì capii cosa voleva dire essere stato amico di Falcone e aver ospitato un giudice, Francesco Di Maggio, che aveva denunciato con veemenza le collusioni Stato-mafia: andammo in macchina, preceduti e seguiti da agenti di scorta. Sotto casa, uno saliva a piedi e un altro in ascensore, quindi davano il via libera. Non molto dopo ci fu l’attentato in via Fauro, dal quale ti salvasti per miracolo. Non ti è passato per la mente di piantare tutto?
«A dire il vero non ci ho pensato mai, anche perché le iniziative contro la mafia, che in quegli anni spadroneggiava, davano un senso al mio lavoro. Ho sempre detto: il mafioso fa il mafioso, il giornalista fa il giornalista. Basta ricordarsi i ruoli».
Tu e Berlusconi: quando è andato in politica gli hai detto che lo preferivi come editore.
«Aggiunsi: non ti voterò mai, ma non ti colpirò mai alle spalle. E ho mantenuto la promessa».
La guerra della cravatta però l’hai vinta tu. Berlusconi insisteva che tu la mettessi.
«E io a spiegargli che non avevo collo e stavo malissimo. Adesso vedo che è lui che non la mette, se non quando è in veste ufficiale».
Con Barbara hai avuto una polemica piuttosto accesa per la sua dichiarazione a Le invasioni barbariche della Bignardi.
«Aveva criticato pesantemente la mia Buona Domenica e io osservai che forse parlava per scienza infusa o perché aveva problemi in famiglia. Fine della polemica».
Maurizio, ci sono leggende sul tuo esordio nel giornalismo, mettono di mezzo Montanelli, il giro ciclistico del Belgio, il presidente della Rai Veltroni, papà del tuo amico Walter. Facciamo un po’ d’ordine?
«Vittorio Veltroni mi portò a visitare la Rai. A Montanelli scrissi, sognavo di incontrarlo. Mi fissò un appuntamento e disse che se volevo diventare giornalista non dovevo perder tempo: “Prendi quel che ti propongono, anche gratis”, disse. Il direttore di Paese Sera mi consegnò un pacco di agenzie: c’è il giro ciclistico del Belgio, scrivi la cronaca della tappa. Detto fatto, però alla fine ebbi una specie di crisi di coscienza e firmai l’articolo Maurice Constant. Avevo 17 anni e da allora mi soprannominarono “il volontario d’agosto”, perché regolarmente andavo a sostituire gratis i giornalisti in ferie».
Qual è il perfetto conduttore televisivo?
«Bisogna essere un po’ uomini di spettacolo, percepire la platea e le sue tensioni, avere ritmo. Incoraggiare l’ospite timido e ridurre a miti consigli il presuntuoso. Saper fare le domande e avere curiosità per i fatti e le persone. Un fantastico lavoro da matti».